Dal male macroniano non nasca solo il peggio
La situazione francese è paradigmatica di quella internazionale: vede la crisi del neoliberismo favorire l’avvento di destre pericolose. Ma in Francia si sono generati anche anticorpi sociali e democratici
Ida Dominjanni in un messaggio sui social offre l’appiglio per una riflessione molto significativa. «Dagli Stati uniti alla Francia alla Germania – scrive la filosofa ed ex giornalista del manifesto – e con le solite anticipazioni del ‘laboratorio italiano’, il messaggio è uno e uno solo: il consenso al centro che ha dominato il mondo post-89, con la sua convergenza e alternanza fra centro-destra e centro-sinistra entrambi neo-liberali, è finito. Finito. Dalle macerie per ora nascono mostri: Meloni, Trump, Le Pen, Afd. Destre più o meno radicali e più o meno (post) fasciste. E può darsi che questi mostri significhino che dal neoliberalismo non c’è un’uscita da sinistra, ma solo da destra: dobbiamo prepararci a questa amarissima conclusione. Ma può anche darsi che da queste macerie rinasca prima o poi una sinistra radicale, o nuovi allineamenti sociali e politici che per ora non riusciamo a prevedere. E anche a questa sia pur vaga eventualità dovremmo cominciare a prepararci».
Il messaggio induce a una riflessione che riguarda tutti perché l’esito di questa crisi ha bisogno di essere individuato in modo più realistico possibile, senza lasciarsi andare a emozioni irrazionali, ma senza nemmeno sottovalutare la portata dei cambiamenti. Il primo dei quali è però già un punto analitico rilevante e per nulla scontato nel dibattito pubblico dominante. Mentre, infatti, Emmanuel Macron si è divertito negli ultimi mesi a far esplodere il sistema politico francese, il Corriere della Sera per descrivere la situazione il giorno delle dimissioni del primo ministro Michel Barnier tratteggiava un ritratto del leader della France Insoumis, Jean-Luc Melenchon, definito «il tiranno divisivo della sinistra francese». Il riflesso liberale resta sempre lo stesso: la crisi sistemica, anche quando è conclamata, dipende dalla riottosità di forze estreme e «tiranniche» ad adattarsi al linguaggio e ai contenuti del liberismo dominante, non già dal fallimento di quest’ultimo. Come il Pd che in Italia che si lamentava del mancato appoggio popolare a Mario Draghi, della socialdemocrazia tedesca che accusa la sinistra conservatrice di Sahra Wagenknecht di farle una concorrenza sleale, senza analizzare i frutti raccolti negli alberi del proprio campo.
Nel caso della Francia, la non volontà di fare i conti con l’impatto della riforma delle pensioni, ad esempio, che ha prodotto uno dei movimenti sociali più rilevanti degli ultimi anni e che, anche se non ha portato a casa alcun risultato, è indispensabile per capire la novità, insperata in gran parte, del Nuovo fronte popolare che alle elezioni di giugno ha impedito la vittoria della destra del Rassemblement National. L’elenco delle misure potrebbe essere molto lungo e, per certi versi, nemmeno essenziale. Quel che è chiaro a chiunque è la natura delle politiche prodotte da questo famigerato «centro», sia in chiave social-liberale, posizione di cui il Partito socialista francese è stato antesignano, sia in chiave conservatrice, vedi la Cdu tedesca, generalmente accompagnatrici dell’accumulazione capitalistica europea, della compressione dei diritti del lavoro e del welfare europeo.
L’asse strategico di tutto questo è il principio di austerità che domina il Patto di stabilità europeo e che, a cascata, permea le politiche di bilancio di tutti i paesi dell’Unione europea. Quella bussola, funzionale a un’economia europea basata sulla forza della moneta e sulla compressione dei salari, è stata seguita in modo cieco e fideistico dall’intera socialdemocrazia d’Europa che in questo passaggio di fase, negli ultimi trent’anni, ha tentato di farsi partito di sistema e di governo. Senza riuscirci. O meglio, riuscendoci per periodi più o meno lunghi preparando la strada alle peggiori destre: la Francia è in questo senso un laboratorio magistrale, forse più chiaro e deciso della stessa Italia che pure ha dovuto scontare, prima al mondo, l’anomala irruzione del tecno-populismo berlusconiano.
Gli sbocchi di scelte sbagliate sono sempre imprevedibili e così in Francia si è avuta una soluzione originale in cui la crisi della sinistra al governo – la disastrosa presidenza di François Hollande – non ha prodotto una mutazione genetica del partito responsabile, ma la formazione, grazie al populismo elitario di Macron, di una forza politica di tipo nuovo, nata dentro alle élites politiche ed economiche, beneficiaria dei moderni mezzi di comunicazione, dell’ansia per il «nuovo» che caratterizza la cattura del consenso contemporanea, della telegenia del leader e della crisi parallela dei vecchi partiti politici. Ps ed ex gollisti, creatori l’uno della presidenza Hollande, gli altri del fallimento Sarkozy, erano gli adatti pugili suonati per far nascere il nuovo centro liberale macroniano. E la stessa illusione ha colto in Italia Matteo Renzi che, però, ha cercato di praticare lo stesso progetto imponendo l’ennesima mutazione in corsa a un Pd che pure era nato per sposare a pieno il social-liberismo, altro che sinistra erede del berlinguerismo. Renzi è durato solo tre anni, travolto da un referendum costituzionale voluto per eccesso di arroganza, Macron sette anni, forse otto, grazie all’inamovibilità garantita dal presidenzialismo francese. Ma – come sottolinea l’ex direttore di Mediapart, Edwy Plenel – quell’inamovibilità, rappresentativa di una forza illusoria, nasconde l’estrema fragilità del sistema politico francese, come dimostra la crisi attuale.
Solo che per capirne di più di questa crisi, che sembra tutta politico-istituzionale, prodotto di un blocco parlamentare determinato dall’assenza di una maggioranza elettorale certa, occorre, frequentando ancora Mediapart, fare i conti con «l’impossibilità di un compromesso democratico con il capitale». La perdurante crisi di produttività che investe l’industria europea, la necessità del capitale finanziario di garantire rigide regole di mercato non lascia spazio a forme di compromesso sociale che probabilmente potrebbero aver reso possibile una mediazione parlamentare. Macron e Barnier dovevano tentare il tutto per tutto e cercare di piegare le opposizioni. Che, invece, hanno tenuto le posizioni puntando a incassare in futuro il massimo della rendita possibile. E così ci si trova di fronte a un’impasse dello stesso neoliberismo che, per conseguire i propri obiettivi, è costretto a veder saltare il banco, a dover fare i conti con una crisi permanente e strisciante.
L’elenco dei paesi in cui questa condizione di crisi è plateale si allunga ogni giorno. In Europa il governo del «semaforo» tedesco si appresta a chiudere la propria esperienza lasciando la strada al ritorno dei democristiani della Cdu. Pedro Sanchez resiste a sinistra in Spagna, ma la crisi di Sumar potrebbe alla fine travolgerlo mentre il Partito popolare si sposta sempre più a destra. I laburisti inglesi, con una politica liberista e centrista, sono già in crisi e nei sondaggi vengono stabilmente superati dai Conservatori che le ultime elezioni davano morenti.
Ma l’epicentro di questo fallimento è la stessa Unione europea. C’è una linea di continuità tra quanto accaduto alla nuova Commissione di Ursula von der Leyen e quanto accade a Parigi. Anche a Bruxelles, l’idea di gestire la crisi – e stavolta si tratta di una crisi globale in cui in ballo sono i rapporti di forza geopolitici con gli Usa da un lato e la Cina o i paesi dell’est asiatico, dall’altro – senza intaccare in alcun modo gli assi portanti della teoria di Maastricht non ha retto e la maggioranza parlamentare si è dovuta allargare verso destra recependo così le resistenze più conservatrici e sovraniste verso la transizione ecologica (con riflessi prevedibili sulle politiche sociali). Solo che, a differenza di Barnier in Francia, von der Leyen ha potuto contare su una quota di destra «responsabile» desiderosa di entrare nell’establishment europeista dopo aver fatto fortuna insultandolo per anni (vedi Fratelli d’Italia).
L’esito europeo è dunque quello che autorizza i timori di Dominjanni e del resto l’asse politico del pianeta si sta spostando in modo sempre più deciso verso la sua destra generando ogni tipo di mostruosità politica: il Milei della motosega in Argentina, Donald Trump, la destra estrema dell’Europa orientale a fronte dei quali Marine Le Pen, erede della tradizione fascista francese, potrebbe essere anche la figura più rispettabile. Ma per la Francia la sua presidenza costituirebbe uno choc maggiore di quello generato dall’entrata di Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
Lo scivolamento a destra è quindi la previsione più probabile sia perché è già in atto, sia perché i liberali del mondo intero hanno l’abitudine di fare blocco con le estreme destre quando non riescono più a batterle. L’Italia ha fatto da apripista con i governi di Silvio Berlusconi e il rapporto tra l’establishment italiano e il governo Meloni è tutto meno che conflittuale. Qualcosa di analogo sta avvenendo negli Usa con settori importanti, non solo Elon Musk, della Silicon Valley già orientati a trattare con Trump – Jeff Bezos, capo di Amazon, ha impedito già prima del voto al suo Washington Post di rendere pubblico l’appoggio a Kamala Harris – e, appunto, il processo in atto nell’Ue segue lo stesso spartito.
Ma c’è anche la possibilità di una risposta. In fondo, la nascita del Nuovo fronte popolare (Nfp) in Francia ha rappresentato la prova che una reazione positiva, popolare, di sinistra, con forti venature radicali, era ed è possibile. La decisione di votare la mozione di censura, nonostante la sovrapposizione dei voti con la destra di Le Pen, conferma la possibilità che questa unione abbia delle carte da giocare anche se non ci si può nascondere la densità dei movimenti di riposizionamento: i socialisti infatti già hanno aperto alla possibilità di un governo «a prova di censura» in alleanza con i macroniani. Se fosse così, sarebbe la morte della Nfp e i socialisti tornerebbero alla loro natura; se invece è una mossa tattica, le ferite a sinistra comunque non mancherebbero e già si vedono le risposte irritate della France Insoumise all’apetura socialista. l. Il problema è che, a partire dal risultato di luglio, Nfp ha mancato la prova del suo radicamento territoriale, del prolungamento della dinamica politica e sociale generata dalla sua formazione e dai timori di una vittoria del Rassemblement National. Invece che generare «comitati» Nfp ovunque fosse possibile i dirigenti delle sinistre si sono rintanati nelle beghe parlamentari, nei litigi di corridoio e nei vecchi scontri in vista delle presidenziali, ancora una volta, nonostante la crisi evidente della V Repubblica, dominus incontrastato della politica francese.
Quella mancanza, in realtà, alla prova dei fatti e delle necessità, indica l’unica strada possibile per evitare che dal male esca solo il peggio. Slanci di mobilitazione massiccia e popolare, di classe, in grado di formare alleanze non episodiche e assolutamente non elettoralistiche, ma sociali, di contenuto, durature, radicate e ramificate. In Italia non esistono forze politiche paragonabili nemmeno lontanamente alle sinistre francesi e quindi lo schema può essere solo allusivo, ma esistono mobilitazioni appena avvenute e altre che si stanno per compiere. Saldare lo sciopero generale, ad esempio, con l’opposizione alle misure repressive che il governo si appresta a far approvare dal Parlamento, il ddl 1660, rappresenta una prova non indifferente che dovrà scontrarsi con le rigidità di apparati e le gelosie burocratiche o organizzative, ma nondimeno resta un passaggio ineludibile per iniziare ad accumulare riserve contro la destra, attrarre i movimenti giovanili, dare appigli a quel che si muove nelle periferie, impedire che dal chiaroscuro nascano solo dei mostri.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023).
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