
Febbre da 90°
Novant’anni fa nasceva il campionato di calcio. Ne parliamo con lo storico John Foot, che più di altri ha mostrato come l'analisi dell’evoluzione della Serie A aiuti a comprendere come sono cambiate la società e l’economia del nostro paese
L’anno che si chiude è stato gravido di anniversari – da quello appena trascorso del Muro di Berlino, a quello più malinconico dell’Autunno Caldo ’69, fino a quelli più dimenticati come il centesimo del «primo» Biennio rosso. Tra questi c’è anche il novantesimo anniversario della creazione della Serie A – il massimo campionato italiano di calcio, croce e delizia di milioni di tifosi, appassionati e maniaci di ogni parte d’Italia e non solo; sacramento unico di quella «sorta di fanatica religione civica» alla quale era realmente dedicata la domenica italiana, prima dell’avvento del «calcio spezzatino» televisivo.
La Carta di Viareggio (1926) fu il documento fondativo del calcio come lo conosciamo oggi, nato dalle esigenze di due delle anime che influenzano quasi da subito il football in Italia: le industrie e la politica. Da un lato, il passaggio dal dilettantismo al professionismo (argomento tornato d’attualità grazie al calcio femminile) permise ai proprietari delle grandi società calcistiche del nord di poter rinforzare le proprie squadre senza più bisogno di sotterfugi e scandali – come quello di pochi anni prima, legato al passaggio del terzino della Pro Vercelli Rosetta alla Juventus di Edoardo Agnelli. Allo stesso tempo, figure legate al mondo della politica imposero con prepotenza la loro influenza su uno sport già in grado di attrarre l’attenzione delle masse – su tutti Leandro Arpinati, tra i capi dello squadrismo bolognese, Podestà di Bologna e sottosegretario agli Interni, che arriverà a ricoprire, tra le altre, le cariche di Presidente della Figc, del Coni, e che di quella Carta è il più diretto ispiratore. Assieme al passaggio al professionismo, la Carta di Viareggio sancì la nascita di un campionato unico nazionale – in sincronia con la retorica nazionalista del regime fascista appena consolidatosi – e il tramonto dei vecchi gironi regionali; malgrado cambiamenti nel numero di squadre o di punti assegnati, da allora la divisione tra Serie A e Serie B ha accompagnato l’evoluzione di un torneo sempre più seguito in Italia e nel mondo.
Per molti versi, negli anni Ottanta e Novanta in cui raggiunse il suo apice, la Serie A fu in effetti il primo campionato globale – con i suoi campioni da tutto il mondo, l’equilibrio tra le storiche grandi e la provincia, e anche i primi trasferimenti spropositati, come quello di Gianluigi Lentini al Milan di Berlusconi (1992), con immancabile strascico legale prescritto solo nel 2002 – il campionato italiano ha contribuito a creare i canoni del calcio di oggi, in cui invece è rimasto indietro. Al suo novantesimo compleanno, se la Premier League sembra un altro pianeta e una squadra vince per la prima volta nella storia otto campionati consecutivi (finora…), la Serie A rimane più di un gioco, uno specchio, deformante ma affascinante della società italiana – nelle sue aspirazioni, contraddizioni e sofferenze. Nella giornata in cui vediamo disputarsi la Supercoppa italiana in uno stadio saudita, intervistiamo John Foot – docente di storia contemporanea all’Università di Bristol, tra i più acuti e originali storici della società italiana, e autore di Calcio. A history of Italian football (Harper 2006, edizione italiana Bur 2010), oltre che dell’appena uscito L’Italia e le sue storie 1945-2019 (Laterza 2019) – in cui il calcio, come il ciclismo, trovano il loro posto tra i fatti storici che hanno segnato la storia repubblicana.
È inconcepibile, spiegava Foot stesso alla presentazione del libro lo scorso 9 Dicembre presso la casa editrice, fare una moderna storia d’Italia senza tenere conto della finale del 1982, che non solo ha contribuito a plasmare la stessa identità italiana, a partire dal rapporto con la bandiera nazionale, ma ha rappresentato, col 95% di share, il record – con ogni probabilità destinato a rimanere imbattuto – di ascolti della storia della televisione in Italia. Come scrive proprio Foot nell’introduzione del libro, del resto, è «pressoché impossibile comprendere l’Italia senza conoscere il calcio, e viceversa».
Partiamo dal principio. Quest’anno cadono anche i 110 anni dalla nascita della Figc, che fin dalla scelta del nome «calcio» – unico caso al mondo in cui non si adottò un calco o una traduzione dell’inglese «football», nel tentativo di richiamare una pseudo-tradizione autarchica in continuità con il Calcio Storico Fiorentino – mostrò una forte connotazione nazionalistica. Del 1909 è anche la prima partita della Nazionale che, sullo sfondo di una accesa polemica sul numero dei giocatori stranieri, con la contrapposizione tra l’Internazionale, il Genoa e i «Leoni» dell’italianissima Pro-Vercelli, sceglierà di disputare la partita d’esordio con la casacca completamente bianca in omaggio alla squadra piemontese. Oggi, con un rinnovato interesse nei confronti della Nazionale, suscita polemica il kit «Rinascimento», che ripesca la casacca verde (usata un’unica volta nel 1954) a discapito dell’azzurro sabaudo. Assistiamo a un’inedita inversione dell’abbraccio tra calcio e nazionalismo in Italia, con un mondo del calcio consapevole del proprio ruolo di argine alle nuove spinte nazionaliste? E se si, ci stiamo dotando dei mezzi migliori per farlo?
È difficile dirlo. Credo che abbiamo visto negli ultimi anni un progressivo sganciamento, una separazione degli italiani dalla Nazionale, mentre è andata crescendo la forza della lealtà alla propria squadra – soprattutto rispetto ai club più grandi in termini di tifosi: Juventus, Milan, Inter, e poi Napoli e Roma – in contrapposizione al tifo per gli azzurri. Nel passato queste due identità tendevano a coesistere in modo piuttosto efficace – la fedeltà alla propria squadra non interferiva troppo con il supporto per la Nazionale, nei confronti della quale rimaneva una forte identificazione, che si esprimeva soprattutto durante le grandi prestazioni e vittorie. Ma c’è una certa evidenza che la forza attrattiva della Nazionale è calata negli ultimi anni – e la mancata qualificazione per l’ultima Coppa del mondo, in fondo, non ha causato un grande trauma, almeno in superficie. Tuttavia, la crescita del nazionalismo estremista e il declino parallelo del regionalismo secessionista – come espresso soprattutto dal mutamento nazionalista della Lega sotto la guida di Salvini – potrebbe avere un effetto interessante sul supporto alla Nazionale. Anche in questo caso è troppo presto per dirlo: i prossimi campionati europei saranno un primo test per questa relazione. Politica, identità e Nazionale sono sempre stati fortemente intrecciati in Italia – dal fascismo fino al modo in cui Pertini sfruttò la vittoria del 1982 per rafforzare il proprio mito (tema su cui ho scritto in passato). In un certo senso, il calcio (la Nazionale) ha rappresentato uno dei pochi luoghi dove è sempre stato accettabile avvolgersi nel tricolore – sebbene, come racconto nel mio ultimo libro, dopo la vittoria del 1982 la stampa riportò casi di persone verosimilmente di sinistra che festeggiavano in piazza con vecchie bandiere bucate, perché avevano rimosso solo allora il vecchio stemma Savoia dopo averle tenute a prendere polvere per decenni! Tornando al presente, è interessante che il nuovo movimento delle cosiddette sardine intona due canzoni nelle manifestazioni – Bella Ciao, e l’Inno di Mameli. Questo «avvolgersi» nella bandiera intorno al calcio, in passato, si è rivelato un fenomeno di breve periodo, e non ha cancellato di colpo le divisioni politiche. Ogni sconfitta si è del resto tradotta in feroci polemiche contro calciatori, allenatori o altri personaggi – è sempre stato facile trovare capri espiatori. Il calcio rimane un linguaggio universale, usato dai politici per comunicare con le masse di tifosi.
Dai grandi «santoni» della panchina (gli ungheresi, il mago Herrera, Liedholm, fino a Mourinho) ai calciatori (quelli stranieri da cui difendersi, quelli «oriundi» da assimilare per la maggior gloria della patria, fino alle seconde generazioni «non del tutto italiane»), il calcio italiano ha forse anticipato la relazione problematica dell’Italia con l’emigrazione – perlomeno con quella in entrata. È fenomeno alquanto recente, infatti, e forse effimero, quello della «fuga dei cervelli» – con i nostri grandi allenatori (Ancelotti, Conte, Sarri…) e persino le giovani speranze (come il giovane Kean) che cercano fortuna oltre confine (e oltremanica). Possiamo usare la Serie A per tracciare una storia del rapporto tra l’Italia e l’emigrazione? E cosa ne impariamo?
L’emigrazione, l’immigrazione, l’identità, sono spesso comprese e rappresentate attraverso lo sport, e il calcio è stato sin dai suoi albori il più potente veicolo di divisioni e assorbimento di questi movimenti e identità. Basti pensare al modo in cui i calciatori meridionali, negli anni della grande migrazione interna degli anni Sessanta e Settanta, divennero rappresentativi di alcune delle squadre più importanti dell’epoca. Il calcio italiano si è del resto globalizzato, come molti altri sistemi calcistici. Quando il pressing conquistò il calcio italiano, nell’era di Arrigo Sacchi e del calcio totale, molti fantasisti lasciarono il paese per andare a giocare il loro calcio altrove – ad esempio Gianfranco Zola, Benito Carbone, Paolo Di Canio. In anni recenti, il relativo declino finanziario della Serie A ha portato all’aumento di importanza di calciatori di nazionalità fino ad allora meno presenti – pensiamo ai calciatori polacchi. Il razzismo dagli spalti era più o meno assente nei tardi anni Ottanta e nei primi Novanta, ma divenne un fenomeno diffuso quando il razzismo politico prese piede a partire dalla metà di quel decennio. Le autorità non sono state in grado di sradicarlo dagli stadi – in parte per il potere degli ultras, in parte per mancanza di volontà politica, in parte per una non comprensione di cosa sia il razzismo, in parte ancora per la completa assenza di rappresentanza delle comunità migranti all’interno della struttura di potere del calcio, e nella società più in generale. Mario Balotelli è la rappresentazione emblematica di tutto ciò. Nato e cresciuto in Italia (per gran parte della sua vita con genitori adottivi italiani) è stato il primo Italiano nero a essere diventato una stella di fama internazionale. È stato anche il giocatore più insultato nella storia d’Italia, vittima di razzismo su base praticamente quotidiana. Spesso questo razzismo è stato negato – arrivando a dire che non era razzismo, e questa negazione continua. I vertici della società italiana, compresi quelli a capo del calcio, non hanno alcun senso di cosa sia il razzismo e di come come combatterlo. Nel frattempo, la Lega di Salvini sforna e stimola propaganda anti-immigrati dalle sue numerose piattaforme di social media. La recente campagna “anti-razzista” lanciata dalla Serie A, che utilizzava delle scimmie (!) è solo l’unico esempio, forse il più grottesco.
Un altro aspetto del rapporto tra politica e calcio è quello dell’ordine pubblico. Nonostante siano descritti con toni sensazionalistici, fin dagli albori il calcio in Italia si è accompagnato a episodi di violenza. Come ricostruito nel suo libro, i primi si registrano nel 1905; un sensibile aumento si ha poi a ridosso della Grande guerra; e un primo collegamento con la politica avviene in pieno Biennio rosso, con le «giornate rosse» di Viareggio. La svolta autoritaria del fascismo sancisce l’avvio del connubio calcio-repressione: il primo scudetto dopo la crisi legata all’omicidio di Giacomo Matteotti lo vince proprio il Bologna (1925), con la prima, contestatissima finale (ri)giocata a porte chiuse dopo scontri e pistolettate, e la stretta ulteriore alle libertà politiche avverrà nel 1926, dopo il fallito attentato a Mussolini di Anteo Zamboni, sempre a Bologna, nel giorno dell’inaugurazione dello stadio Littoriale nell’anniversario della Marcia su Roma – Gramsci stesso sarà arrestato pochi giorni dopo. Oggi che, dal Daspo urbano al Decreto sicurezza bis, le misure sperimentate negli stadi vengono estese al conflitto sociale, possiamo dire che – anche a confronto con esperienze come quella inglese – a essere «eccezionali» non sono gli stadi italiani, ma le pratiche repressive e di gestione dell’ordine pubblico di uno Stato decisamente poco liberale?
Certamente gli stadi italiani sono delle specie di gabbie, luoghi dominati da logiche altamente securitarie, in cui i tifosi, visti come pericolosi, vengono rinchiusi. Lo Stato vede il calcio come una questione di ordine pubblico. L’altro aspetto di questa situazione sono gli ultras – un tempo una sorta di movimento sociale, ora in larga parte d’Italia espressione di criminalità organizzata e violenza politica di estrema destra. Gli ultras si nutrono dello stadio e del calcio securitario nel loro abbraccio mortale con le società calcistiche – come nei casi di vendita illegale di biglietti, droga, e addirittura minacce alle società stesse. Ci sono certamente eccezioni – si veda il recente lavoro di Tobias Jones sugli ultrà del Cosenza – ma quello degli ultras è un modello autoritario, gerarchico, tutto tranne che inclusivo. Che si deve fare? Difficile dirlo. Nessuno ha una risposta, e gli arresti continui di tifosi hanno mostrato di non avere alcun impatto. Il modello ultras sopravvive all’interno del mondo altamente controllato del «calcio moderno» – un anacronismo in un certo senso, ma anche un modello molto imitato da molti altri tifosi nel mondo, come dimostra David Goldblatt nel suo The Age of Football. Nel frattempo, lo Stato italiano continua a gestire il sistema calcistico in un modo che è poco meno che disastroso – amministrando un lungo declino dalle glorie degli anni Novanta. Il successo della Nazionale italiana femminile all’ultima Coppa del mondo ci dà speranza che il calcio femminile ottenga finalmente le risorse e il riconoscimento che merita – e che le ragazze vengano incoraggiate a praticare il calcio a livello giovanile (come sta accadendo con incredibile velocità nel Regno Unito). Ma personalmente non ho molta speranza. Il rinnovamento che sembrava possibile al tempo di Calciopoli è stato soffocato.
Nei giorni in cui Arcelor Mittal iniziava un traumatico braccio di ferro col governo italiano sul futuro dell’ex Ilva di Taranto, il Daily Mail riportava il presunto interessamento della famiglia Al-Thani per il Napoli – l’ultima «grande» ancora in mano a un classico patron all’italiana. In pochi anni, infatti, l’Inter è diventata prima thailandese e poi cinese; sono passati in mani statunitensi Milan, Roma, Bologna e Fiorentina; la Juve, legalmente olandese dal 2016, potrebbe veder rotto lo storico legame con Fiat, con l’acquisizione mascherata da “fusione” da parte di Psa. Questo trend – che segue la tendenza inglese a campionati sempre più internazionali, proiettati verso una Superlega Europea, con la Serie B sempre più «campionato degli italiani» – cosa ci dice del declino economico dell’Italia, e del suo ruolo nell’economia globale?
In parte ho già risposto. Il calcio italiano tendeva a dominare il mondo quando l’economia italiana era forte – negli anni Sessanta (quando Milano era una delle grandi piazze calcistiche globali) e negli anni Ottanta, con l’impressione di un secondo boom e l’arrivo di un pioniere (in termini politici, economici, culturali, sportivi) come Silvio Berlusconi. I Mondiali del 1990 sembrarono annunciare la venuta di una nuova era di stile e sport (Made in Italy), una fusione perfetta di design, architettura, musica e tradizione. Ma si trattò di una falsa partenza: le basi dell’economia erano fragili, come quelle del sistema calcistico. Dozzine di club fallirono: i conti erano truccati. L’arrivo di proprietari stranieri non si è tradotto in un ritorno a uno status globale, analogo a quello degli anni Ottanta o Novanta. Piuttosto, la «Vecchia Signora» – ancora nelle mani della famiglia Agnelli, di antico lignaggio industriale – ha continuato il suo dominio, vincendo campionato dopo campionato, e riuscendo ad attrarre sul suolo italiano vere stelle internazionali (inclusa una vera e propria superstar, in là con gli anni ma ancora in grado di incantare ogni tanto, come Cristiano Ronaldo). Il calcio italiano – come il paese stesso – ancora possiede centri di vera eccellenza (i sistemi di allenamento o la grande professionalità dello staff tecnico, per esempio) ma sta attraversando una crisi lunga e difficile (come il paese); una «crisi» talmente lunga che la parola stessa inizia a perdere significato.
Rispetto alla mappa che apre il suo volume, la Serie A oggi descrive un paese segnato da crisi, stagnazione, disuguaglianze – tra classi sociali, territori, generazioni. È sparito il sud, con molte grandi piazze addirittura in Serie C; resistono le grandi città e ciò che resta del nord produttivo (addirittura quattro le emiliane). Mentre tutto il calcio si finanziarizza, e la Juve approfitta di sconti fiscali per puntare tutte le sue fiche su Ronaldo. La squadra più titolata in Europa, il Milan, si attorciglia in una crisi senza fine; a incalzarla ci sono i capitali cinesi e pochi distretti operosi (Atalanta), costretti a vendere e tenere bassi i costi. Anche le grandi del centro-sud sono costrette o al rischioso trading forsennato (Roma), o alla deflazione salariale (Napoli) – fino, verrebbe da scherzare, alla repressione degli scioperi. Ma da qualche tempo, exploit più o meno sporadici in Champions, il ritorno di grandi allenatori e di grandi campioni, nonché il citato «Rinascimento» della Nazionale, fanno gridare al cambio di tendenza. Dov’è la verità? Cosa dobbiamo aspettarci dalla Serie A – e dall’Italia?
La Serie A è ancora un campionato magnifico da guardare. Possiede ancora quella combinazione di tattiche sofisticate, difesa di alto livello e stadi decrepiti ma affascinanti. Gli stereotipi risalenti al catenaccio sono ridicoli, e li usa solo chi non guarda davvero il calcio italiano. Ma è in effetti difficile da guardare fuori dall’Italia. I diritti Tv sono stati gestiti male. In questo modo, la Serie A ha finito per venire marginalizzata nel tempo. Certo, serve che qualcun altro vinca. Un campionato dove vince sempre solo la Juventus non è un luogo sano per nessuno – nemmeno per la Juventus! L’Atalanta dà qualche speranza, e l’Inter finalmente è tornata competitiva. Ma Roma e Napoli sembrano aver iniziato un lungo declino, e non c’è segno di un ritorno del Milan alle glorie dell’era Berlusconi. Quanto all’Italia, il futuro non sembra luminoso. Un sistema politico che semplicemente non funziona più, e – agli estremi – un movimento di estrema destra abile e in fiducia pronto a prendere il potere, e a usare quel potere per generare ulteriore rabbia e condurre una campagna elettorale permanente contro immigrati e «buonisti». Come se non bastasse, l’Italia non ha prodotto un vero campione di livello mondiale dal ritiro di Andrea Pirlo. Ci sono certamente molti buoni giocatori che si stanno formando, ma nessuno sembra avere la classe della generazione precedente. La «fuga dei cervelli» ha riscosso il suo tributo, persino nel mondo del calcio. Il futuro è ancora da scrivere, ma il proseguimento del declino sembra purtroppo, in un certo senso, inevitabile
*John Foot è docente di storia contemporanea all’Università di Bristol. Autore di diversi saggi e volumi sulla storia politica e sociale italiana, da ultimo L’Italia e le sue storie 1945-2019 (Laterza 2019). Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica all’Università di Oxford e redattore di Jacobin Italia. Francesco Santimone è attivista del circolo Arci Sparwasser e sindacalista Flc-Cgil.
La traduzione è di Giacomo Gabbuti.
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