Il vuoto dietro la fiamma
Giorgia Meloni festeggia i «dati incoraggianti» con richiami «all’orgoglio» della nazione «che riparte dal merito e dalla crescita». Ma di concreto ha davvero poco da offrire
A chi immaginava che Giorgia Meloni sarebbe intervenuta in qualche modo sulle braccia alzate di Acca Larenzia, sui rigurgiti fascisti che continuano a interessare il suo partito e sulle polemiche alimentate dall’opposizione, con la nota rilasciata l’11 gennaio i dubbi sono stati completamente fugati: «Agli attacchi gratuiti e alle polemiche strumentali degli ultimi giorni da parte di certa opposizione, questo governo continua a rispondere con fatti e risultati», ha infatti risposto la presidente del Consiglio. Che si è detta «soddisfatta in particolar modo delle ultime rilevazioni Istat che certificano i segnali positivi in tema di lavoro, con la disoccupazione che scende e l’occupazione che in un anno è aumentata di oltre 500mila unità». Tralasciamo in questa sede l’analisi, con relativa confutazione, della soddisfazione acritica del governo su dati occupazionali più complessi di quanto appaia (la ripresa è finita e i posti di lavoro precari, part-time e a tempo determinato sono ormai quasi il 20% del totale) perché quello che è importante sottolineare è l’intreccio perverso, e tossico, tra l’immaginario fascista da cui Fratelli d’Italia non ha intenzione di tirarsi fuori e la narrazione infantile dei dati concreti dell’attività di governo e di quelli sostanziali dell’attività politica.
Offerta politica vuota
Il governo Meloni infatti, non fa che presentarsi pubblicamente con una comunicazione che esalta i vari «dati incoraggianti» chiosandoli con richiami appassionati «all’orgoglio» della nazione e di un’Italia «che riparte dal merito e dalla crescita». Sembra il metodo utilizzato dalle furbizie studentesche che cercano di allungare artatamente i propri temi scolastici senza aggiungere nessuna sostanza. La comunicazione di Fratelli d’Italia è ritmicamente basata su sguardi della premier che puntano radiosi l’orizzonte, «orgogliosa» di star compiendo un servizio alla propria Nazione. Quale sia però questo servizio, che progressi sociali, economici, politici e culturali si stiano realizzando è questione molto più eterea e impalpabile, anche se questo stranamente, visibile nel discorso pubblico, non sembra tradursi in un’erosione elettorale almeno da quanto registrano attualmente i sondaggi (ma in questo caso non si può prescindere dalle responsabilità delle opposizioni e dall’assenza di una contestazione diffusa nel paese).
Questo vuoto comunicativo e politico ha toccato l’acme nel corso della conferenza stampa annuale tenutasi il 4 gennaio. Le cronache e i commenti dei giorni successivi si sono concentrati in particolare sui fatti di maggiore attualità, come il caso della sparatoria di Capodanno che ha coinvolto il sottosegretario Andrea Del Mastro, la qualità della classe dirigente di Fratelli d’Italia, la gestione familiare del partito, il caso Verdini e i suoi rapporti con il ministro leghista Matteo Salvini, la possibile candidatura europea di Meloni fino alle sue necessità fisiologiche peraltro esibite platealmente davanti alla stampa. Pochi hanno messo l’accento sulla vacuità dell’offerta politica del maggior partito di governo, sulla debolezza programmatica, sulla mancanza di visione e di prospettive per il futuro della prima donna a guidare un governo in Italia.
Meloni ha fatto notizia per la sua contrarietà ad accettare «condizionamenti» o ricatti da chicchessia, affermando orgogliosamente di essere «una che non si spaventa facilmente»; sul richiamo al proprio partito a sentire maggiormente la responsabilità che gli deriva dalla fase attuale; sulla sua disponibilità a sostenere nel Parlamento europeo una commissione eventualmente sostenuta anche dalla sinistra, «ma senza far parte della maggioranza». Qualche riferimento concreto è stato fatto al tema delle pensioni – «da affrontare con le parti sociali se hanno voglia di fare questo lavoro» – parlando della «migliore sostenibilità del sistema pensionistico possibile». Alquanto generico. Così come generica è stata la risposta sulla privatizzazione di Fs o Poste – «sì, ma mantenendone il controllo» – dilungandosi invece sulla riforma costituzionale che punta a introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio e sull’eventuale, successivo, referendum che «non sarà su di me, ma sul futuro di questa nazione» con il solito atteggiamento enfatico. Anche sui migranti non ha offerto alcuna analisi se non «l’insoddisfazione» per i risultati raggiunti, cioè l’impennata di sbarchi (per quanto si tratti di 150 mila persone, in un’Italia sempre più ridotta numericamente dalla denatalità).
Una conferenza stampa, e quindi un punto complessivo della situazione, fatta di polemicucce, battute a effetto, gossip politico – ancora uno scontro a distanza con l’influencer Chiara Ferragni – nascondendo invece prospettive sostanziali che stanno alla base del problema principale del governo. Alla domanda, ad esempio, sulla preferenza tra l’aumento delle tasse e il taglio della spesa pubblica Meloni ha risposto di privilegiare il secondo, adattandosi già, dunque, alle imposizioni del Patto di stabilità appena ratificato.
La destra di Fratelli d’Italia ha conquistato il governo, grazie anche agli effetti perversi di una legge elettorale antidemocratica e alla divisione delle opposizioni, senza avere un programma adeguato alla situazione complicata in cui versano le economie occidentali. Questo scarto, tra la forza retorica e propagandistica che ha issato Giorgia Meloni sugli altari della politica nazionale e la debolezza delle proposte programmatiche, fa fatica a venire fuori, a occupare il centro del dibattito pubblico e a essere impugnata come una clava molto efficace da parte delle opposizioni (ma qui si aprirebbe il capitolo delle contestuali proposte programmatiche di queste, e forse si capirebbe meglio perché Meloni possa surfare indisturbata su un’opinione pubblica frastornata).
La situazione italiana, ed europea, è chiaramente evidenziata da dati economici che prevedono una fase di recessione prolungata, alimentata dalle politiche di austerità imposte dai parametri europei e dagli alti tassi di interesse della Banca centrale. La Ue ha dichiarato chiusa la parentesi apertasi con la pandemia da Covid che ha portato alla stagione del Next Generation Eu e quindi a un allentamento delle politiche di bilancio e un’estensione delle protezioni pubbliche nonché a un rilancio degli investimenti. Quello che poteva rappresentare un ripensamento strategico della costruzione europea si è limitato a una parentesi di un percorso apparentemente immutabile, una misura-tampone presa per evitare il peggio, la destrutturazione di economie statali e di sistemi di welfare largamente diffusi. Chiusa la parentesi si torna alla solita minestra, al business as usual europeo.
E qui Meloni e il suo governo non ha nessuna carta alternativa da giocarsi. La non ratifica del Mes è stata presentata come un’autonomia politica rispetto al quadro europeo, ma la contestuale approvazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita, con la sostanza dei suoi parametri immutata e con un inasprimento dei piani di rientro per i paesi che deviano da quei parametri (i famigerati 3 e 60% nel rapporto tra deficit e debito sul Pil), non lascia adito a dubbi. La politica economica che Meloni deve portare avanti non si differenzia da quella degli ultimi vent’anni – con la parziale eccezione dei governi Conte – e quindi anche le sue scelte non saranno improntate a modifiche eccezionali delle condizioni di vita della popolazione italiana. Non si tratta solo di una postura negativa, quella che cancella il Reddito di cittadinanza, inasprisce il sistema pensionistico, riduce i fondi alla sanità, ma di una promessa di crescita e sviluppo destinata a rimanere lettera morta. Con Meloni si annuncia una stagnazione prolungata, una mortificazione delle risorse pubbliche, un’inesistenza di cambiamenti strutturali. Questo è il vero punto debole del governo e su questo bisognerebbe concentrare un’opposizione efficace.
Per coprire questo vuoto la maggioranza si muove in modo scomposto. La Lega di Salvini cavalca operazioni di immagine come il Ponte sullo stretto e l’immancabile questione dei migranti. Forza Italia cerca di limitare i danni dati dalle sue piccole dimensioni numeriche sbracciandosi per rappresentare una forza politica popolare e moderata in tempi in cui si punta soprattutto a scelte radicali (basti guardare alla progressiva polarizzazione della politica in Germania e Francia). Fratelli d’Italia, quando va bene, sceglie la vuota retorica dell’orgoglio nazionale e di un’inesistente Italia «del merito». Oppure privilegia il ripiegamento identitario.
Il bisogno delle proprie radici
Qui si collocano le vicende come la recente manifestazione di Acca Larenzia, e le migliaia di braccia issate nel saluto fascista, che si aggiunge ai tanti «incidenti» o provocazioni che riguardano il rapporto irrisolto tra la destra di governo attuale e il ventennio fascista, dal 25 aprile alle tante dichiarazioni del presidente del Senato, Ignazio La Russa.
Quello che va evidenziato della polemica più recente non è tanto l’immagine delle braccia tese, come se si trattasse di una manifestazione di Fratelli d’Italia. Questo tipo di polemica si appresta a sbarcare addirittura nel Parlamento europeo dove il capogruppo dei liberali di Renew Europe, Stephane Sejourné, l’ha definita «un’immagine scioccante» mentre il leader del Ppe, Manfred Weber, sottolinea che «in Europa non c’è posto per il saluto fascista». A colpire, invece, è la modalità con cui la classe dirigente di FdI ha scelto di rapportarsi a quella giornata da cui avrebbe potuto facilmente prendere le distanze. Un dirigente romano molto affermato, vicepresidente della Camera e dal passato «militante» come Fabio Rampelli ha forse dato l’indicazione più significativa e destinata a pesare per tutto il suo partito: «Aspettiamo da 46 anni che qualcuno si occupi di loro, dei ragazzi di destra ventenni uccisi nella strage di Acca Larenzia e non solo, di quelli di sinistra ventenni uccisi con altrettanta ferocia nelle città dove la violenza ideologica imperversava», ha scritto a caldo sulla sua pagina Facebook. «Aspettiamo che le istituzioni si occupino dei ‘figli di un Dio minore, che approfondiscano in maniera seria la stagione dello scontro fratricida tra ragazzi innocenti di destra e sinistra, che stabilisca la verità storica su chi ha messo armi da guerra e chili di tritolo in mano a giovani adolescenti». Si legge il desiderio, più forte di qualsiasi responsabilità di governo e responsabilità nazionale, di «vendicare» la propria storia politica, di dare voce a quel «dio minore» riferito non tanto agli anni del fascismo, ma agli anni Settanta in cui i neofascisti hanno cercato in ogni modo di affermare la propria leggittimità politica, preclusa loro da un quadro sociale infuocato.
A questo atteggiamento fa eco così il presidente del Senato che, invece di chiudere il capitolo, di privilegiare il proprio ruolo istituzionale, facendosi interprete di quei milioni di voti provenienti da un centrodestra arato negli anni di Silvio Berlusconi, si preoccupa di far sapere con interviste fotocopia ai principali giornali che il saluto fascista «per alcune sentenze non è reato, per altre invece sì», quindi è bene che «si faccia chiarezza dal punto di vista giuridico, ce n’è bisogno». L’attesa, sua e di molti altri, è per il 18 gennaio quando la Cassazione esaminerà un caso simile e la sua decisione è destinata a fare giurisprudenza. Il ministro Francesco Lollobrigida, il noto «cognato» sceglie anch’egli di minimizzare: «Acca Larenzia è come la commemorazione della morte di Verbano, se ci sono i centri sociali che inneggiano ai terroristi non è che lo fa il Pd».
Il gruppo dirigente di Fratelli d’Italia ha bisogno così di non recidere le proprie radici. Non arriva, non può, a rivendicarle apertamente, ma ripetutamente sollecitato e costantemente triturato dalle polemiche, decide lucidamente di assumere una posizione di continuità. Il fatto di essere l’erede del partito fondatore del centrodestra e quindi di avere sulle proprie spalle la possibilità, nonché la responsabilità, di rappresentare un elettorato molto ampio e variegato, non lo distoglie da questa intenzione. La necessità di un collante ideologico per reggere all’urto della fase sembra avere la meglio. Senza quel cemento, probabilmente, così come accaduto a tanti altri partiti, anche FdI si smembrerebbe, si dividerebbe magari fra settori «statalisti» e altri più «liberisti», tra una vocazione maggiormente sociale e un’altra puramente istituzionale e politicista, e altre distinzioni ancora.
La necessità di collanti ideologici non è questione da banalizzare, i partiti reggono anche con quello, ma abbiamo assistito negli anni a espedienti diversi da parte di partiti con altre storie alle spalle. Matteo Salvini, ad esempio, ha scelto di coagulare il proprio elettorato nell’odio contro gli stranieri e nell’esaltazione dell’emergenza-migranti, mentre la fase nascente del M5S aveva come centro nevralgico l’attacco costante alla classe politica dominante. Fratelli d’Italia invece non vuole uscire dalla sua nicchia storica e dal riferimento, sia pure radicato sulla non-abiura più che sull’aperta rivendicazione, all’epoca fascista – si guardino i post del «pistolero» Pozzolo – ma soprattutto al neofascismo degli anni Settanta. Che rappresenta il momento più fondativo del partito attuale, come ha dimostrato anche il primo discorso programmatico della presidente del Consiglio in Parlamento, quando ha attaccato a testa bassa «l’antifascismo della chiave inglese». Un riferimento necessario e vitale, anche per nascondere il vuoto di idee e di programmi per il futuro. Basterebbe iniziare a presentare questo conto al governo per far cambiare la situazione politica.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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