La coalizione dei braccianti della Florida
Uno dei leader dell'innovativo sindacato di lavoratori agricoli di Immokalee racconta la loro esperienza. Tenendo insieme lavoratori e consumatori hanno imposto il tavolo di trattativa anche alle grandi multinazionali del settore alimentare
Era il novembre del 1995 quando, all’ennesima stretta sui salari a cottimo, i braccianti di Immokalee, uno dei principali centri agricoli della Florida centro-occidentale, decisero di scioperare. Nessuno aveva mai osato farlo, né gli afroamericani che avevano per primi fornito braccia a queste terre, né i lavoratori migranti, per lo più provenienti da Haiti, Messico, Guatemala, che avevano preso il loro posto. Quello sciopero segnò anche il culmine di due anni di lavoro di organizzazione lanciato congiuntamente da alcuni braccianti ex attivisti politici in fuga dai recenti colpi di stato in America Centrale e nei Caraibi e da Greg Asbed e Laura Germino, attivisti di un’organizzazione di supporto legale ai lavoratori migranti. Tutto iniziò con riunioni settimanali nel retro di una chiesa cattolica per discutere di una semplice questione: perché i braccianti di Immokalee sono così poveri? Da lì nacque un primo embrione di organizzazione che, con lo sciopero del 1995, lancerà la formazione della Coalition of Immokalee Workers.
Venticinque anni dopo, incontriamo Gerardo Reyes Chávez, animatore di comunità e leader storico della Coalizione. Originario dello stato di Zacatecas, in Messico, Gerardo è arrivato a Immokalee nel 1999, in una fase di espansione e crescente visibilità della Coalizione.
Per iniziare ci racconti il lavoro organizzativo nella comunità a partire dal tuo arrivo?
Al mio arrivo a Immokalee ero molto sperduto. Avevo trascorso alcuni mesi in un’altra località della Florida, raccogliendo arance. A Immokalee, invece, iniziai a lavorare nella raccolta del pomodoro. Il caposquadra però si rifiutava di pagarci e, quindi, tornai presto al mio lavoro precedente. Ero sotto un chivero [caporale nel settore delle arance, ndr] che faceva base a Immokalee. Dormivamo in una roulotte vicino casa sua. Partivamo per primi al mattino e tornavamo a casa per ultimi la sera. Dividevo quell’alloggio di fortuna con due compagni di squadra, che avevano collaborato con la Coalizione nell’indagine del caso Cuello su una pervasiva rete di sfruttamento tra la Florida e altri Stati della costa orientale. Dopo qualche mese di convivenza, i miei compagni mi invitarono a una delle riunioni della Coalizione. L’atmosfera aveva qualcosa di profondamente familiare, accogliente direi. Ebbi subito la sensazione di uno stretto legame con la comunità di Immokalee. Iniziai a partecipare assiduamente alle varie attività, dalle ronde porta a porta al volantinaggio in ogni angolo della città. I nostri manifesti erano di grande immediatezza: testi concisi e immagini chiave, spesso disegnate a mano, per comunicare temi quali la sopraffazione salariale, la violenza nei campi e gli altri abusi con cui dovevamo confrontarci quotidianamente.
Allora come ora, il fulcro di tutto sono gli incontri settimanali del mercoledì. Durante la stagione di raccolta, tra novembre e giugno, partecipavano anche più di 80 persone. Si finiva con una proiezione, spesso di film popolari, capaci di evocare ricordi di casa. Eravamo anche attivi sul fronte dell’educazione popolare attraverso il teatro, uno strumento preziosissimo nell’organizzazione di base nella comunità. Abbiamo sempre prediletto il registro comico: aiuta le persone ad aprirsi, ne stimola la ricettività anche a temi delicati legati allo sfruttamento.
Chi ha familiarità con il mondo del lavoro agricolo contemporaneo sa quanto sia difficile promuovere forme di solidarietà trasversali in comunità spesso diversificate sotto ogni profilo sociale. La differenziazione sociale tra i lavoratori è di ostacolo al vostro processo di organizzazione a Immokalee?
Quando nacque la Coalizione in città serpeggiavano molte tensioni, fomentate ad arte dai capisquadra per creare divisione tra i lavoratori nei campi. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare un’identità comune, basata sulla nostra collocazione come braccianti in una specifica filiera produttiva. Le differenze culturali legate alla nostra provenienza d’origine non sono mai state un ostacolo. D’altra parte, abbiamo deciso di chiamarci Coalizione proprio a sottolineare la confluenza e la coesistenza di diverse anime unite da una visione comune.
Una delle tue attività quotidiane, nonché grande passione, è la conduzione di un programma radiofonico per la vostra famosa Radio Conciencia. Che ruolo e importanza ha una radio di comunità nella vostra esperienza?
La radio è uno strumento cruciale perché fa da apripista e rende più facile un lavoro di radicamento all’interno della comunità. Quando andiamo di casa in casa per presentare la Coalizione, la gente ne ha già sentito parlare, si identifica con noi, se non altro come ascoltatori di Radio Conciencia. Aiuta anche la nostra selezione musicale, volutamente sul vecchiotto andante, o meglio, affine a ciò che si potrebbe ascoltare in Messico o in Guatemala, ma che nessuna radio qui in Florida si sognerebbe di trasmettere. Oltre a raccontare le nostre attività, spesso affrontiamo temi di interesse pubblico e forniamo informazioni di immediata utilità. Penso alle molte volte in cui Immokalee è stata colpita da uragani e ancor di più a questi mesi di pandemia.
Lo sciopero dell’autunno 1995 segnò un punto di svolta per la nascente Coalizione, soprattutto per la formazione di una coscienza collettiva. Dal 1996 al 2000, la Coalizione organizzò uno sciopero generale all’anno, insistendo su temi quali il diritto a un giusto salario, la libertà di organizzazione senza timore di subire ritorsioni, l’accesso a condizioni abitative dignitose ed economicamente sostenibili, e l’implementazione delle norme e delle garanzie giuridiche a favore dei lavoratori. Nel 1997, per la prima volta, lo sciopero non si indirizzò ad alcuni singoli imprenditori agrari ma alla loro organizzazione di settore. Da allora, l’azione della Coalizione ha iniziato a distinguersi per una strategia rivendicativa volta a ottenere accordi per l’intera industria contrastando la frammentazione dei lavoratori in un settore caratterizzato da una grande facilità di accesso a manodopera sottocosto e facilmente sostituibile. Gradualmente, la Coalizione abbracciò l’approccio che l’ha poi resa famosa: rivolgere le proprie rivendicazioni direttamente ai grandi buyers, le multinazionali al vertice delle filiere alimentari. Quali furono gli eventi, le ragioni e le riflessioni che portarono a questo vostro cambio di strategia?
Tutto iniziò nel 2000, dopo la nostra «Marcia per la dignità, il dialogo e un salario equo». Durante la marcia portammo in spalla una riproduzione della Statua della Libertà, con la pelle scura come la nostra, e con in braccio il tipico secchio usato a Immokalee per raccogliere i pomodori. Dopo aver percorso oltre 270 km a piedi, nessuno della Fresh Fruits and Vegetables Association ebbe la decenza di venire a incontrarci. Quella totale assenza di considerazione ci convinse dell’inutilità di cercare di intavolare un dialogo con le imprese agricole della Florida.
Decidemmo che era tempo di cambiare strategia. L’intuizione su come farlo venne durante uno dei nostri incontri del mercoledì. Ci era capitato tra le mani un articolo di una rivista finanziaria che rintracciava i legami commerciali tra Taco Bell, una delle catene di fast food del gruppo Yum Brands, e alcuni produttori di Immokalee. Pensammo: per estrarre profitti sempre maggiori, il mercato priva noi lavoratori della terra della possibilità di ottenere incrementi salariali. I buyers estorcono prezzi sempre più bassi ai produttori che, a loro volta, cercano di compensare i minori profitti rifacendosi sui costi del lavoro. Ci chiedemmo: e se il mercato non operasse più contro di noi ma a nostro vantaggio? Mettere in pratica questa intuizione voleva dire rivolgere lo sguardo agli acquirenti in cima alla filiera produttiva. Lo abbiamo fatto scegliendo Taco Bell come primo obiettivo della nostra Fair Food Campaign (Campagna per il cibo giusto).
La campagna contro Taco Bell è stata la prima nella quale avete fatto ricorso a un boicottaggio su scala nazionale come strumento di pressione per intavolare una negoziazione. Taco Bell è un marchio molto in voga nei campus universitari statunitensi: che ruolo ha giocato questa visibilità nella vostra strategia?
Taco Bell era un obiettivo ideale non solo per la questione della visibilità. È raro che i rapporti di fornitura delle grandi aziende siano di pubblico dominio. Noi, invece, avevamo le prove di un rapporto diretto con i produttori della Florida. Inoltre, Taco Bell è un marchio relativamente piccolo, ma la sua casa madre, Yum Brands, è un colosso mondiale del fast food. Questo nesso era per noi altamente strategico, perché tutti si sarebbero chiesti: com’è possibile che un manipolo di lavoratori, provenienti da una delle comunità più povere degli Stati uniti, sia riuscita a vincere contro un simile gigante? In altre parole, prendere all’amo un pesce piccolo per raggiungerne uno di dimensioni ben diverse avrebbe avuto un grande potenziale simbolico. Infatti lo ebbe, guadagnando un grande sostegno alla nostra causa e conducendo alla creazione della Fair Food Alliance (Alleanza per il cibo equo).
L’Alleanza è una rete unica nel suo genere. È nata nel 2005, dopo la fine del boicottaggio di Taco Bell. Ne fanno parte gruppi ecclesiastici di ogni genere – dal Consiglio nazionale delle chiese protestanti ai Rabbini per la giustizia – organizzazioni per la giustizia alimentare, numerosi gruppi studenteschi attraverso la Student/Farmworker Alliance (Alleanza studenti/braccianti), ecc. Ha un ruolo molto importante per noi. Dal 2005 ci ha sostenuto in tutte le nostre campagne.
Una rete simile riunisce un’estrema varietà di anime ed esprime una grande molteplicità di interessi. Come riuscite a mantenere la voce dei lavoratori al centro?
Quando abbiamo iniziato a costruire una rete di alleati, molti ci vedevano come persone bisognose di essere salvate. C’è spesso un tono di questo tipo, per esempio, quando le persone parlano di casi di lavoro forzato o di violenza sessuale nei campi. Anche persone pronte a mobilitarsi lo fanno animate da un senso di colpa quando si rendono conto di essere indirettamente collegati a un mercato che sfrutta sistematicamente i lavoratori. La gente preferisce non sentirsi coinvolta in un sistema responsabile dell’impossibilità per le famiglie di Immokalee di nutrirsi adeguatamente o di vivere in un ambiente sano. Impegnarsi in atti caritatevoli può essere una maniera facile di lavarsi la coscienza. Noi abbiamo cercato di ribaltare questa rappresentazione e queste convinzioni molto radicate. Le persone che, con il loro lavoro, permettono di portare il cibo alla tua tavola devono poter fare lo stesso per sé stessi, e in modo dignitoso. Questa idea è, per certi versi, la colonna portante dei rapporti tra le anime molto diverse che costituiscono l’Alleanza, perché ci permette di vederci e essere trattati pienamente come essere umani. È anche la base per rendersi conto che noi lavoratori siamo portatori di interessi e non siamo privi di mezzi o capacità di analisi, ma abbiamo una conoscenza e una profondità di visione della nostra condizione. In questo senso i lavoratori sono la forza motrice del cambiamento.
Due anni dopo Taco Bell, fu la volta della campagna che portò all’accordo con McDonald’s. Poi avete condotto campagne contro Burger King, Trader Joe, Publix, ecc. Alcune delle vostre campagne sono durate anni. Ad esempio, la campagna attualmente in corso contro la catena di fast food Wendy’s è stata lanciata nel 2013. Per far fronte alle resistenze di Wendy’s, inoltre, avete nuovamente decretato un boicottaggio nazionale. Uno degli elementi costanti nelle vostre campagne è la centralità del ruolo dei consumatori. Come riuscite a neutralizzare la proverbiale volatilità dei movimenti di consumatori e mantenere vivo il loro impegno per la vostra causa?
I nostri sostenitori sono di estrazione diversa, ma spesso hanno altre esperienze di attivismo alle spalle e dunque capiscono l’importanza della mobilitazione. Dal nostro canto, ci impegniamo molto per nutrire queste relazioni: organizziamo tour in varie località del paese, partecipiamo a eventi e conferenze di ogni sorta. È un lavoro continuo, ma necessario visto che il supporto dei consumatori ci permette di mantenere la pressione sulle aziende a capo della filiera alimentare. Detto questo, cerchiamo di fare in modo che il consumatore non si pensi più solo come tale, ma come un essere umano, che ha di fronte un essere umano con bisogni, desideri ed esperienze di vita in fondo simili alle sue.
I primi accordi conclusi dalla Coalizione chiedevano alle aziende contraenti di includere alcuni nuovi standard, ritenuti fondamentali dai lavoratori, all’interno dei propri codici di condotta. Il rischio di delegare alle imprese firmatarie l’implementazione dei nuovi standard, così come generalmente accade nei programmi di responsabilità sociale convenzionali, condusse la Coalizione a intraprendere un proprio originale sforzo di codificazione, sfociato nell’elaborazione del Fair Food Code of Conduct (il Codice degli standard per un cibo giusto). Il codice è l’architrave intorno a cui si sviluppa il Fair Food Program, espressione di un approccio inedito alla promozione dei diritti dei lavoratori, battezzato dalla Coalizione worker-driven social responsibility, responsabilità sociale guidata dai lavoratori. Qual è stato il ruolo svolto dai lavoratori nell’identificazione degli standard e nella redazione del Fair Food Code of Conduct?
All’inizio non avevamo idea di come poter dare vita a un programma come quello che esiste oggi. Nonostante il susseguirsi di una serie di successi con le multinazionali, non siamo riusciti a ottenere che i produttori si impegnassero nell’implementazione del nostro codice di condotta fino al 2010. Dopo un biennio pilota, il Programma fu lanciato solo nel 2011. Gli standard inclusi nel Codice sono emersi nel corso di discussioni interne e con la comunità negli incontri del mercoledì. Ad esempio, un elemento centrale del nostro Codice è il cosiddetto penny per pound. Si tratta di un bonus, del corrispettivo di un penny per ogni mezzo chilo di pomodori raccolti, pagato direttamente dalle multinazionali acquirenti e trasferito in busta paga ai lavoratori dai produttori. L’idea alla sua base è quella di imporre all’industria agroalimentare di smettere di tagliare i salari dei lavoratori. Un altro esempio dell’unicità del nostro Codice è l’introduzione di uno standard che vieta, e permette di denunciare, la pratica comune di esigere che i lavoratori riempiano a oltranza i secchi, in gergo l’overfilling. Questo comporta il riconoscimento al lavoratore di circa il 10% del prodotto raccolto in più e si traduce in un aumento salariale del 10%. Provate a immaginare cosa voglia dire un incremento del genere in un contesto di stagnazione dei salari quasi quarantennale! Un programma classico di responsabilità sociale non avrebbe mai potuto prevedere uno standard sull’overfilling perché chi scrive quei codici non conosce i soprusi che ne derivano; non sa che la persona responsabile della supervisione delle operazioni di svuotamento dei secchi sul camion, in gergo il dumper, può minacciarti utilizzando il potere che gli viene assegnato dal caposquadra di spedirti in fondo alla fila solo per raccogliere una manciata in più di pomodori, o di svuotare il secchio senza riconoscere il pagamento. Chi scrive i classici codici di condotta non sa nemmeno che tu, come bracciante, se protesti, puoi diventare bersaglio di atti di violenza e di ripercussioni di varia natura. Un altro esempio simile potrebbe essere quello che istituisce per i lavoratori il diritto all’ombra.
Questa è la differenza tra un codice che emerge da una campagna guidata dai lavoratori e qualcosa che nasce dall’alto. Tuttavia, se non c’è uno sforzo organizzativo sufficiente, simile a quello messo in campo nella nostra esperienza, il codice di condotta sarà sempre uno strumento esterno consegnato a una comunità dall’alto e la sua applicazione avrà molti limiti. Perché se sei povero e non sei organizzato, non puoi che accettarlo come una concessione su cui non metter bocca.
Altro punto chiave del Programma, che lo distanzia dai classici approcci di responsabilità sociale, è l’implementazione degli standard. Tanto il monitoraggio del rispetto degli accordi da parte delle multinazionali e dell’applicazione degli standard da parte dei produttori quanto la risoluzione delle controversie sono affidate a un’organizzazione indipendente, il Fair Food Standards Council (Consiglio degli Standard sul Cibo Giusto), creata dalla Coalizione. Quali sono gli ingredienti che garantiscono anche a questo livello un approccio incentrato sui lavoratori?
Il punto cruciale riguarda la pervasività e regolarità dei controlli nell’ambito del Programma. La maggior parte delle aziende private di certificazione effettua controlli sul 10-15% della forza lavoro, operando spesso senza un accordo pregresso con le ditte madri o capofila che acquistano dalle aziende sottoposte a controllo. Il Consiglio, invece, è tenuto a intervistare almeno il 50% dei lavoratori, arrivando anche al 100%, il che offre già un primo quadro degli eventuali problemi.
I produttori sono tenuti a garantire che il Consiglio abbia pieno accesso alle loro aziende per poter mantenere i contratti con gli acquirenti, per intenderci, i McDonald’s e Walmart di turno, che hanno sottoscritto l’accordo. Oltre a una funzione ispettiva, il Consiglio assicura che le eventuali violazioni del Codice vengano risolte. Esiste poi un sistema di protezione dei lavoratori contro eventuali ritorsioni, di cui i lavoratori si fidano avendolo testato negli anni. In assenza di accordi vincolanti, i lavoratori preferiscono non esporsi con denunce di soprusi nel timore che eventuali ritorsioni non siano sanzionate. I lavoratori protetti dal Programma sanno che otterranno un rimedio, a volte anche per delle controversie non tali da dare adito a una violazione del Codice. Anche le violazioni, peraltro, non sono tutte della stessa gravità. Abbiamo identificato diversi scenari: il singolo abuso, l’abuso sistematico, e le situazioni che richiedono un cambiamento infrastrutturale. In questo processo di determinazione, le ditte acquirenti entrano solo nei casi in cui i produttori non rispettano l’accordo, ma questo avviene solo dopo diversi livelli di mediazione e negoziazione. L’efficacia del Programma si basa sulla capacità di utilizzare le dinamiche di mercato per garantire una partecipazione attiva dei produttori, i quali sanno che in caso il Consiglio determini una violazione del Codice, rischiano di perdere, almeno temporaneamente, le loro relazioni commerciali con una buona parte dei loro acquirenti. Esiste un interesse economico concreto a garantire l’implementazione degli standard, anche per gli acquirenti, che si mettono così al riparo da danni di immagine e godono di una posizione concorrenziale migliore rispetto ai loro concorrenti suscettibili di subire pressione da parte dei consumatori mobilitati da noi della Coalizione.
Che ruolo svolge la Coalizione nel garantire l’applicazione del Codice?
Dando vita alla Fair Food Campaign, la Coalizione ha posto le basi affinché 14 aziende tra i colossi del settore agroalimentare accettassero di sottoscrivere degli accordi vincolanti contenenti il Codice e i produttori agricoli, ormai di altri sei Stati oltre alla Florida, impegnandosi al rispetto degli standard e all’implementazione del programma. A inizio stagione, organizziamo in ognuna delle aziende partecipanti una riunione per presentarci, distribuire materiale informativo e spiegare ai lavoratori i diritti di cui godono in virtù del Programma. Gli spieghiamo che possono presentare eventuali reclami attraverso tre canali: la linea sempre attiva del Consiglio, la direzione delle risorse umane delle aziende agricole in cui lavorano, e noi della Coalizione. Più in generale, manteniamo una comunicazione continuativa sia con il Consiglio che con i produttori agricoli riguardo allo stato di implementazione del programma e alle potenziali modifiche che vanno apportate ai loro processi operativi.
Buona parte degli accordi stipulati dalla Coalizione precedono il Programma e, intervenendo in un contesto di abusi sistematici, contenevano norme volte a garantire degli standard minimi ai lavoratori. È possibile modificare in seguito gli accordi in modo da raggiungere obiettivi più avanzati per i lavoratori?
Ogni accordo raggiunto con una corporation ha rappresentato la base contrattuale per quello successivo. L’accordo con Taco Bell conteneva solo pochi punti, tra cui una clausola di tolleranza zero verso casi di lavoro forzato che incentivò i produttori a essere più vigili rispetto ai loro intermediari. Nel 2007, inizialmente McDonald’s era restio a concedere il bonus del penny per pound, e fu solo la minaccia di un boicottaggio che lo convinse a cedere. Da allora il bonus penny per pound è diventato una clausola immancabile. Detto questo, gli accordi possono cambiare nel corso del tempo. Tuttavia, proprio per questo, il Programma è in continua evoluzione, soprattutto il manuale di implementazione del Codice. Questo documento racchiude il frutto delle discussioni del gruppo di lavoro permanente costituito da noi della Coalizione e dai produttori. È attraverso questo meccanismo, per esempio, che oggi il Codice contiene lo standard sull’overfilling. Un altro esempio di evoluzione positiva degli accordi riguarda il diritto di non essere vittima di discriminazioni. Inizialmente, questo aspetto era coperto dallo standard che prevedeva il diritto di lavorare in modo dignitoso e essere trattati con rispetto. In seguito, furono proprio i produttori a proporre l’inclusione di uno standard a sé stante in materia.
Accennavi al ruolo dei capisquadra, tema molto discusso in Italia dove il fenomeno del cosiddetto caporalato è sia il primo anello dello sfruttamento che un ostacolo alla organizzazione dei lavoratori. Quali sono stati i cambiamenti introdotti dal Programma nei processi di reclutamento e, più in generale, nei rapporti di forza esistenti nei campi?
I cambiamenti sono stati enormi. Prima del Programma, i capisquadra erano delle entità indipendenti, per così dire: avevano il loro sistema di contabilità, gestivano in proprio il trasporto dei lavoratori e controllavano, con ampio spazio per abusi, il denaro consegnato loro dai produttori per pagare i lavoratori. C’era una delega totale da parte dei produttori, che permetteva loro di declinare ogni responsabilità, inclusa quella legale, per gli abusi subiti dai lavoratori. Oggi non è più così. Sono le aziende ad assumere i lavoratori e essere responsabili legalmente delle loro condizioni, anche potenzialmente in caso di lavoro forzato. In passato, i produttori sono riusciti a proteggersi in aula da accuse di responsabilità diretta sostenendo di non essere a conoscenza delle condizioni specifiche a cui sono soggetti i lavoratori. Se un simile caso viene riscontrato nell’ambito del Programma, i buyers che hanno sottoscritto l’accordo sono obbligati a interrompere ogni relazione con i produttori coinvolti. Adesso i capisquadra sono loro stessi degli impiegati dei produttori, a cui le aziende appaltano servizi di trasporto e il lavoro di supervisione della forza lavoro.
La creazione del Programma ha creato più spazio di manovra per la Coalizione nel suo lavoro di base a Immokalee?
Prima per noi era molto difficile entrare nelle aziende agricole; ora questo è di prassi tramite le sessioni informative che organizziamo ogni anno in ciascuna azienda aderente al Programma. Non entriamo nelle aziende per portare avanti un lavoro di organizzazione tra i lavoratori. Nelle sessioni con loro, infatti, possiamo solo informarli dei loro diritti così come sono stipulati dagli accordi che istituiscono il programma. Tuttavia, questi incontri sono momenti importanti di conoscenza reciproca. I lavoratori, poi, se vogliono possono contattarci in un altro momento per esporre i loro problemi. Un altro ostacolo al lavoro di base della Coalizione è sempre stato l’elevato turnover che esiste tra i lavoratori agricoli. Anche da questo punto di vista, i nostri sforzi stanno facendo sì che nelle aziende che partecipano al programma la forza lavoro stia diventando più stabile. Questo è segno di un ambiente più sano. Il programma, infatti, sta promuovendo un cambiamento culturale nell’industria agroalimentare sotto diversi aspetti, come ad esempio sotto il profilo del riconoscimento dei diritti dei lavoratori Lgbtq, da sempre uno degli aspetti più difficili da affrontare in un contesto di radicata arretratezza come è quello dell’agricoltura.
Il modello della worker-driven social responsibility ha acquisito una crescente reputazione a livello internazionale e ispirato alcune nuove iniziative negli Stati uniti e oltre. In che modo la Coalizione costruisce ponti e collaborazioni con altri movimenti di lavoratori a livello nazionale e transnazionale?
Il nostro approccio è sempre stato pragmatico: perseguire le strade che dimostrano di portare risultati concreti. Questa è stata la filosofia che ci ha portato a tenere in debito conto quello che i produttori ci hanno ripetuto per anni, ovvero che loro stessi erano spremuti dal mercato. Abbiamo preso sul serio la questione ed è stato proprio questo a spingerci a sperimentare il Programma. Seguiamo lo stesso approccio rispetto alla questione dell’estensione dei nostri rapporti oltre il territorio della Florida. Dalla fine degli anni 2000, abbiamo avviato una collaborazione con Migrant Justice, un’organizzazione di lavoratori impiegati nelle aziende di produzione del latte del Vermont. Dal 2018, anche loro hanno lanciato un programma simile al nostro, basato su un codice di condotta elaborato con un forte input da parte dei lavoratori.
Per sostenere lo sviluppo di questa collaborazione e di altre che possano promuovere il nuovo approccio da noi sperimentato in diverse parti del mondo abbiamo deciso di creare una rete, la Worker-driven Social Responsibility Network, di professionisti e attivisti impegnati a offrire supporto e consulenza ai gruppi di lavoratori che vogliano intraprendere un percorso simile. In questi casi, è importante riuscire a identificare tanto le fonti di potere a disposizione dei lavoratori nel loro contesto specifico quanto meccanismi che rendono possibile sfruttarli a loro vantaggio. Per questo non puntiamo a replicare in toto il programma da noi elaborato, ma a lavorare insieme alle comunità di lavoratori interessati per creare un modello che sia applicabile alle loro specifiche realtà. Ed è proprio questo ciò che sta accadendo nella nostra relazione con Migrant Justice, con un gruppo di lavoratori edili a Minneapolis e, oltre confine, con i lavoratori tessili coinvolti nell’Accordo di Bangladesh e negli accordi di Lesotho.
Che implicazioni sta avendo l’attuale pandemia a Immokalee per le vostre attività e la comunità in generale?
Tra maggio e agosto la situazione è stata gravissima. Quando a marzo abbiamo iniziato a focalizzarci sul contrasto al virus, non pensavamo che questa sarebbe stata un’emergenza senza precedenti. Abbiamo iniziato a rendercene conto quando i nostri tentativi di stabilire un dialogo con le autorità locali e quelle statali si sono scontrati con l’assenza di una qualsiasi volontà di occuparsi della situazione dei braccianti. Questo ci ha portato a realizzare che dovevamo fronteggiare la situazione da soli e con una una nostra specifica campagna. Così abbiamo instaurato una collaborazione con alcune organizzazioni, come Medici senza frontiere, per poter attivare un sistema di tracciamento tra i lavoratori agricoli e nella comunità. Ci è voluto circa un mese di intensa campagna prima di riuscire a convincere lo stato della Florida a intervenire e organizzare le proprie stazioni di monitoraggio.
La situazione è certamente migliorata, ma le persone che vivono in circostanze di grande vulnerabilità continuano a non ricevere il supporto di cui avrebbero bisogno. Più di ogni altra cosa la pandemia sta mostrando l’esistenza di una fondamentale disconnessione tra il lavoro e i lavoratori. Il lavoro, e in particolare il lavoro agricolo, è considerato «essenziale». Infatti, sostanzialmente non si è mai fermato durante tutti questi mesi. I lavoratori, invece, sono trattati come non indispensabili, superflui.
*Antonella Angelini, è ricercatrice postdoc del Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica. Esperta in diritto internazionale e diritti umani, si occupa particolarmente dei diritti dei lavoratori e delle comunità locali nella catene di fornitura e del valore globali. Giulio Iocco si occupa di politica rurale e agricoltura, è dottorando all’Università della Calabria. Coordina il gruppo di FuoriMercato su «Agroecologia».
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