La sinistra non si ricostruisce dal tetto
È arrivato il momento di smettere di porsi solo un problema di tattica, di discutere unicamente del modello da seguire o del leader da presentare. Occorre ripartire dalle fondamenta
In Italia è diventata un’abitudine. Da quando, undici anni fa, la sinistra radicale si ritrovò fuori dal parlamento nelle politiche del 2008, i giorni successivi a ogni tornata elettorale di livello nazionale sono quelli della delusione per ogni lista a sinistra del Pd. Stavolta si somma anche l’inquietudine per i risultati ottenuti da Lega e Fratelli d’Italia e lo smarrimento di fronte alla contemporanea battuta d’arresto di un po’ tutti i principali modelli di sinistra ai quali in questi anni si è guardato con speranza in Europa.
Con gli appena 465 mila voti raccolti, La Sinistra ha ottenuto meno della metà del milione e 100mila voti presi alle ultime europee dalla lista Altra Europa con Tsipras e un terzo della somma dei voti presi da Liberi e Uguali (sempre un milione e 100 mila) e da Potere al popolo (370 mila) alle politiche del 2018. Anche volendo sommare ai voti de La Sinistra le 230 mila preferenze raccolte dal Partito comunista di Marco Rizzo, non si arriva alla metà del già disastroso risultato della sinistra radicale nel 2018. Gli stessi Verdi, dal nulla e con alcuni candidati imbarazzanti, hanno raccolto 600 mila voti, intercettando almeno una piccola parte delle mobilitazioni ambientaliste di questi mesi.
Di solito nei commenti del giorno dopo nel mondo della sinistra radicale si affermano tre impostazioni, tutte all’apparenza dettate dal buon senso:
1. Dobbiamo essere più uniti e avere un tetto comune;
2. Cerchiamo per la prossima volta un leader più efficace;
3. Prendiamo lezione dagli altri modelli europei (il che può variamente significare «La sinistra riparta da Tsipras», «Facciamo come Podemos», «Ci vorrebbe un Mélenchon» o «Se solo il Pd avesse un Corbyn…»).
La gravità della crisi in cui siamo immersi rende più insufficienti del solito queste tre impostazioni.
Unità, ma tra chi?
La richiesta di unità riaffiora più che in passato, per la genuina necessità di fronteggiare una situazione inquietante, con due partiti di estrema destra che da soli potrebbero avere nelle prossime politiche i numeri per governare il paese. Ma unione tra chi? La domanda si fa sempre più difficile, perché alla sinistra del Pd le percentuali dei soggetti che si dovrebbero unire appaiono sempre più marginali e prive di prospettiva, e i reiterati tentativi di liste unitarie cambiandone nome e leader sono ripetutamente falliti finendo paradossalmente per aumentare la frammentazione. Con questa impostazione quindi si finisce per accreditare l’unica alternativa unitaria possibile: confluire nel Pd di Nicola Zingaretti – cosa che peraltro qualcuno ha già fatto in questa tornata elettorale – anche se non c’è stato alcun segnale di cambiamento rispetto alle politiche portate avanti negli ultimi vent’anni da questo partito e che tanto peso hanno avuto nel produrre «il paese senza sinistra» in cui viviamo oggi. Anzi, proprio l’immobilismo dell’attuale segretario sta facendo acquisire un peso sempre maggiore all’opzione liberista più aggressiva di Carlo Calenda.
Rispunta, come sempre, la questione del leader, stavolta legata al rammarico di aver perso l’occasione di una lista capitanata dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ma proprio il suo fallimento nel tentativo di unire attorno alla propria figura i frastagliati soggetti della sinistra radicale segnala ancora una volta la fragilità di una soluzione che parta dalla leadership. E in questo momento nessuno può far finta di non vedere la profondità dei problemi e i rapporti di forza fotografati in modo inquietante da queste europee.
I modelli non bastano più
A differenza del recente passato non troviamo nemmeno un modello di sinistra europea a cui ispirarsi, o da contrapporre a un altro che non ha funzionato, discussione che ha animato spesso i dibattiti nostrani del giorno dopo. Tutte le principali esperienze a cui si è guardato in questi anni hanno infatti registrato un’evidente battuta d’arresto.
Il primo esempio è quello di Syriza in Grecia. Un modello che ha indicato la possibilità per un piccolo e organizzato partito della sinistra radicale di prendere tutto lo spazio del Pasok – il partito socialista di impostazione liberale – sintonizzandosi con i movimenti anti-austerity e proponendo ricette anti-liberiste, fino ad arrivare al governo nel 2015. In queste europee Syriza è stata superata di ben 9 punti percentuali dalla destra di Nea Demokratia e costretta a convocare nuove elezioni politiche. Negli anni di governo ha del resto dovuto affrontare una progressiva normalizzazione del proprio operato, dopo il drammatico scontro con l’Unione europea culminato con il referendum che aveva bocciato le proposte draconiane dell’Ue a favore dei creditori, ma che lo stesso Tsipras non ha avuto la forza di sostenere. Scontando così un forte restringimento dei margini di manovra per politiche economiche radicalmente alternative.
A subire una forte battuta d’arresto è anche il modello più compiutamente ispirato al populismo di sinistra proposto dai teorici Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, di cui tanto si è discusso in questi anni. Si tratta della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, crollata al 6% dopo aver sfiorato il 20% alle presidenziali di due anni fa. Il suo stile fondato su un forte ruolo del leader, un’impostazione tattica spregiudicata e una costruzione di un “noi” e un “loro” che mette in secondo piano la classica dicotomia sinistra/destra (pur proponendo molte ricette classiche della sinistra radicale), si è incrinata velocemente senza riuscire a raccogliere nulla del vento anti-Macron scatenato dal movimento dei Gilets gialli. Segnalando, a guardar bene, che quando nella società emerge il nazionalismo va sempre a destra – dove è sempre andato.
Anche chi è riuscito a scalare e trasformare il partito che fu di Tony Blair, producendo una dinamica senza dubbio interessante, è oggi colpito dal risultato deludente delle europee dove il labour di Jeremy Corbyn, stretto dalla morsa della questione Brexit su cui ha avuto diverse contraddizioni, si è fermato al 14%. Mostrando che anche dove il tetto è più solido questo da solo non basta, servono anche un programma politico compiuto e posizioni coerenti.
Infine, incontra grosse difficoltà anche il modello in origine più movimentista incarnato da Podemos nello stato spagnolo. Un soggetto politico incubato nel vivo del movimento degli Indignados ed esploso velocemente e in modo sorprendente grazie alla capacità dei suoi giovani dirigenti di saper cogliere quell’onda conflittuale e di richiesta di alternativa, arrivando fino al 25% dei consensi. Già in evidente calo alle recenti elezioni politiche, è sceso ancora in queste europee attestandosi al 10%, con l’aggiunta della perdita dolorosa dei più significativi sindaci “del cambio” conquistati quattro anni fa: Manuela Carmena a Madrid, superata dalla destra, e Ada Colau a Barcellona, superata per un soffio dagli indipendentisti. Hanno sicuramente pesato le recenti divisioni tra i due leader Pablo Iglesias e Íñigo Errejón e la difficoltà, con l’importante eccezione del movimento femminista, che attraversa il ciclo di lotte iniziato con il movimento degli indignados. Ma soprattutto pesa la progressiva attitudine assunta dal partito di organizzarsi in modo verticale, chiedendo una delega tutta politica e sottovalutando la necessità di costruire degli addentellati nella società. Per di più con vari cambiamenti strategici nel rapporto con il partito socialista spagnolo (Psoe), finendo per essere percepito come un partito dal ruolo ausiliario nel più vasto centrosinistra.
Ripartire dalle fondamenta
È forse arrivato allora il momento di non porsi solo un problema di tattica. Di smettere di discutere unicamente del modello da seguire o del leader da presentare. Se esperienze così diverse tra loro, e inizialmente di successo, vanno in difficoltà è perché il problema che abbiamo di fronte è di portata storica, e va affrontato a prescindere dall’efficacia di qualsiasi tattica proposta. Il movimento operaio per come l’abbiamo conosciuto nel Novecento non esiste più, e se non se ne ricostruiscono le basi sociali e il programma politico chiunque rischia di ritrovarsi in difficoltà, se non a gestire scatole vuote.
Non ci sono scorciatoie che permettono di non affrontare il problema epocale della crisi storica della sinistra. Nessuno ha risposte esaustive, ma sarebbe un buon metodo smettere di pensare di poter ricostruire la sinistra partendo dal tetto. Smettere di concentrarsi soltanto su richiami unitari di un’identità ormai diradata, o al contrario di definirsi per differenza all’interno di un campo che è tutto da ritracciare. Bisogna occuparsi delle fondamenta, il che non significa rinunciare a cogliere le occasioni e le accelerazioni politiche, ma porsi contemporaneamente il problema ineludibile di tracciare il campo di battaglia. Un campo che oggi viene diviso tra nazionalisti da una parte e liberaldemocratici dall’altra, nascondendo sotto al tappeto e rendendo irriconoscibili le divisioni di classe.
Cosa significhi occuparsi delle fondamenta è un dibattito urgente e tutto da aprire. Si possono segnalare alcuni ingredienti, a cui se ne dovrebbero aggiungere molti altri.
Innanzitutto in un momento di crisi profonda dei soggetti politici e di frammentazione di quelli sociali dovuta all’offensiva liberista, andare alle fondamenta significa ricercare, con lenta impazienza, una strategia di ricostruzione del sociale, che si ponga il problema di reinventare idee e pratiche che permettano ai soggetti sociali subalterni di tornare a essere soggetti politici in senso proprio. Senza una ricostruzione sociale non si riesce a contrastare l’incessante guerra tra poveri proposta da destra. Vanno ricostruiti i legami e l’idea stessa di solidarietà, imparando dalle pratiche mutualistiche e dal metodo intersezionale praticato dal movimento femminista, capace di riportare dentro una lotta comune le oppressioni di genere, razza e classe senza negare le specificità di ognuna.
Dopo anni in cui la stessa sinistra radicale è stata assorbita totalmente nel ruolo di mediazione politica, occuparsi delle fondamenta significa recuperare un ritmo, quello dei movimenti più attivi, capaci di incarnare la nostra parte del campo e mostrare la possibilità dell’alternativa politica.
Occuparsi delle fondamenta significa tornare a immaginare il futuro, quindi tornare a studiare per produrre un programma politico coerentemente anticapitalista, femminista ed ecologista che non si arrenda di fronte alle contraddizioni sempre più evidenti del capitalismo, segnalate in modo drammatico dalla crisi climatica. La sinistra ha iniziato a scomparire quando ha pensato di poter gestire un compromesso sociale al ribasso, accettando di fatto il “There is no alternative” thatcheriano, limitandosi nel migliore dei casi al compito di amministrare equamente l’esistente, senza chiedersi se l’esistente andava apertamente in senso contrario agli interessi sociali che la sinistra dovrebbe rappresentare. Un’involuzione che ha colpito i soggetti politici come quelli sindacali, facendogli perdere la propria ragione sociale. Per invertire la rotta bisogna tornare a fare ricerca, a produrre idee e linguaggi politici in grado di mostrare e connettere i moderni interessi di classe. Tornando all’ambizione visionaria che è stata propria delle origini del movimento operaio, quella di cambiare il mondo.
*Giulio Calella è direttore di Edizioni Alegre.
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