L’Odissea della sinistra spagnola
Dopo tre anni di governo e il passaggio di leadership da Iglesias a Dìaz, la sinistra iberica è divisa da differenze di stile, strategia e contenuti che rendono incerto il futuro di una delle esperienze che ha resistito all’ondata di destra in Europa
La sinistra spagnola è andata bene o male nelle ultime elezioni politiche? Pesano di più i 700mila voti e otto seggi persi rispetto al 2019 o i milioni di voti recuperati rispetto alle disastrose elezioni locali del maggio scorso?
La scelta del punto di vista determina conclusioni diverse rispetto al bilancio da fare della prima esperienza elettorale di Sumar e di Yolanda Díaz come leader della sinistra iberica. A esse si potrebbero aggiungere anche le previsioni e le speranze suscitate nel corso degli ultimi due anni dalla Ministra del lavoro, nonché i progetti su cosa si voglia fare con questi 31 seggi ottenuti nelle elezioni generali spagnole del 23 luglio scorso. Perché, in fondo, le domande principali a cui bisognerebbe dare una risposta sono: a cosa serve Sumar? Cosa cambia rispetto a Unidas Podemos dopo tre anni e mezzo di governo di coalizione? E quali sono le ambizioni di Díaz e di tutti gli altri componenti di questa nuova coalizione?
Le valutazioni sul risultato di Sumar sono state offuscate dalla sconfitta della destra. A discapito delle previsioni (interessate) di quasi tutti gli istituti demoscopici, il Partito Popolare (Pp) e Vox sono rimasti ancorati a sei seggi dalla maggioranza assoluta mentre il Partito Socialista (Psoe) e la lista di Díaz, pur avendo ottenuto un numero di seggi ben inferiore, possono sperare nella riedizione della coalizione di governo uscente attraverso il voto favorevole di ben sei partiti catalani, baschi e galiziani. Il sorprendente risultato (che sembrava impossibile dopo il cappotto sofferto dalle sinistre nelle elezioni di maggio) è stato accolto con giubilo da Díaz e dal suo cerchio nella notte elettorale, ma sono bastate poche ore affinché l’entusiasmo venisse disturbato. Il pomeriggio successivo al voto, Ione Belarra, segretaria generale di Podemos e ministra dei Diritti Sociali, dava una valutazione negativa del voto. Sottolineava la perdita di consensi – inferiori al peggior risultato di Unidas Podemos – e come la strategia di Sumar, a suo dire, avesse fallito.
Da Unidas Podemos a Sumar
Il 15 marzo del 2021 Pablo Iglesias, allora vice-Presidente del governo spagnolo e leader di Podemos, annunciava le proprie dimissioni. Indicava inoltre anche il nome della sua successora, la Ministra del lavoro Yolanda Díaz, non iscritta a Podemos bensì esponente del Partito comunista spagnolo, ma molto vicina politicamente da anni allo stesso Iglesias, che era stato suo consulente in una campagna elettorale galiziana nel 2012. Il vice-Presidente aveva già preannunciato in diverse occasioni come il profilo di Díaz fosse adeguato per recuperare consensi a fronte di un’erosione della propria immagine, dovuta alle indagini aperte in continuazione contro di lui e il suo partito e alla continua campagna di denigrazione a cui era sottoposto da parte dei mass-media, oltre che alle varie rotture e scissioni di Podemos in polemica con la sua leadership.
Inoltre Díaz aveva un mandato implicito evidente, quello di riportare all’ovile i pezzi che la coalizione Unidas Podemos (Up) aveva perso nel corso del tempo, ovvero i valenziani di Compromís e soprattutto Íñigo Errejón e il suo Más País. Errejón era stato tra i fondatori di Podemos e poi, dopo aver perso un’Assemblea generale interna al partito, lo aveva mollato in modo clamoroso mentre era il suo candidato alla presidenza della Comunità di Madrid nel 2019, determinando una ferita che a oggi non si è ancora rimarginata. Eppure nella primavera del 2021 Podemos sosteneva, scegliendo in primo luogo come leader della coalizione una personalità non della propria formazione, che era ora di ricucire le ferite del passato.
Tuttavia c’è voluto ben poco per capire che Yolanda Díaz aveva una strategia ben diversa da quella di Iglesias e che andava ben aldilà della ricomposizione di Up. La Ministra del lavoro ha sin dall’inizio del suo mandato assunto un atteggiamento basato su competenza e rigore tecnico, presa di distanza dalle polemiche e capacità di negoziato: caratteristiche che lei stessa definisce come «seduzione». Se Iglesias davanti agli attacchi fronteggiava direttamente gli avversari in un «corpo a corpo» – tanto nel Congresso come nel web – che esaltava i suoi sostenitori finendo però per consumarlo, Díaz si è presentata con un atteggiamento ben diverso: piglio da donna «di Stato», comunicazione istituzionale su Twitter, snocciolamento di dati nei dibattiti parlamentari e soprattutto risultati. Díaz è stata la fautrice della riforma del lavoro, della legge sui rider e di decine di accordi con le parti sociali per l’innalzamento del salario minimo (1.080 euro nel 2023, un aumento del 47% dal 2019). E al di sopra di tutto, ciò che rendeva la Ministra la più popolare nel governo erano gli eccellenti dati del mercato del lavoro, a un livello pari alla Spagna precedente alla grande crisi del 2008. La sua riforma del lavoro, che ha favorito la stabilizzazione dei lavoratori è anche quella che ha generato un impressionante miglioramento dell’occupazione.
Ma le distanze con Podemos non sono state certo solo di stile (note da prima del passaggio di consegne), ma di strategia. Pablo Iglesias, dai banchi del governo, aveva visto confermare una teoria, apparentemente evidente ma che difficilmente si può ascoltare da un vice-Presidente del Consiglio: le regole della democrazia liberale valgono solo quando vince la destra mentre ogni qualvolta è la sinistra a mettere piede al governo si attiva una destra massmediatica, militare e giudiziaria che ha come finalità quella di bloccare le riforme ed espellere la sinistra dal governo. «Giornalisti e giudici non sono esponenti di un potere neutro», ripeteva da tempo l’ex-professore di Scienza politica, ma soggetti politici che agiscono per interessi di parte. E così si spiegano le continue operazioni di lawfare ai danni di Podemos e il rapporto Pisa («Pablo Iglesias Società Anonima»), un documento non firmato interno alla polizia pubblicato da giornali di destra finalizzato a dimostrare un fasullo finanziamento iraniano e rilanciato da tutta la stampa. E per questo motivo, da vice-Presidente, arrivò ad affermare che un paese, la Spagna, dove si imprigionano rapper per le proprie canzoni antimonarchiche o dove il Consiglio superiore del potere giudiziario non viene rinnovato da anni, per il rifiuto del Pp a negoziare con Up, non può definirsi un paese con «normalità democratica».
Díaz ha gettato a mare del tutto questo discorso. Ha scelto di ricucire i rapporti con la grande stampa, di non polemizzare con questo o quel giornalista, imprenditore o politico, di non affrontare questioni relative alla democrazia, alla monarchia, all’impostazione reazionaria dei grandi mezzi di comunicazione o alle continue menzogne diffuse da esse. Con un atteggiamento fermo ed educato si è concentrata sul miglioramento materiale delle persone. Questa impostazione ha indubbiamente disturbato la leadership di Podemos – le ministre Ione Belarra e Irene Montero – perché le tesi sottostanti sono proprio quelle di Íñigo Errejón, teorico di un populismo di sinistra che smussi tutti gli angoli di conflittualità che possano generare vulnerabilità spingendo invece sul cosiddetto senso comune che unisce sinistra e maggioranze sociali intorno a temi di grande consenso.
Né le differenze di comunicazione né quelle di strategia riassumono lo iato sempre più grande che si è creato tra Podemos e Yolanda Díaz. C’è sicuramente una lunga fila di episodi, le prese di distanza sempre più evidenti tra la vice-Presidente e il gruppo parlamentare di Up e le scelte fatte dal suo predecessore, Iglesias, che attraverso il podcast La Base e la televisione Canal Red ha certamente dato vita a un controcanto inusuale che può aver destabilizzato il lavoro di Díaz. E poi c’è stata la guerra.
In pochi anche in Spagna hanno sottolineato che le strade di Podemos e Yolanda Díaz si sono separate di molto dopo l’aggressione russa all’Ucraina. La formazione di Belarra ha da subito mostrato una forte opposizione all’invio di armi a Kiev mentre ha organizzato iniziative internazionali per invocare un negoziato. L’atteggiamento di Díaz è stato ben diverso, ondeggiando tra una manifestazione di rispetto verso le prerogative di politica estera del Presidente e uno studiato silenzio, proprio di chi non vedeva nel pacifismo una posizione foriera di sostegno popolare (anche qui contava il «senso comune»). Una volta in più è stata Podemos a ricevere i colpi più duri dalla stampa e soprattutto da giornalisti un tempo molto vicini alla formazione e che oggi ne sono completi avversari. E queste divisioni – che uniscono contenuti politici a rotture personali esacerbate da un uso dannoso di Twitter – si sono completate con l’atteggiamento preso da allora da Díaz nei confronti di Podemos.
La vice-Presidente ha oggettivamente lavorato per isolare i «morados» e le sue due ministre, un atteggiamento che a sua volta ha causato rigidità e una radicalizzazione di questo partito. Díaz ha smesso presto di comportarsi come capo-delegazione di Up, non ha praticamente più rivendicato l’operato delle ministre Belarra e Montero, si è ben guardata dal prendere le loro difese davanti agli attacchi e alle bufale lanciate a reti unificate contro di loro. Podemos è diventata una sorta di parafulmine della politica spagnola, un sacco da boxe contro cui sono state scagliate le peggiori accuse e Díaz ha coscientemente evitato di prendere le difese delle due colleghe di governo. I dirigenti di Podemos non sono rimasti silenti, hanno a loro volta rilanciato le accuse con nomi e cognomi contro i giudici o contro i giornalisti che hanno rilanciato tali accuse, ma questa difesa, a sua volta, è servita alla vice-Presidente per distanziarsi da quello che lei ha definito un «rumore» . La stampa, progressista e conservatrice, ha accettato in pieno l’impostazione desiderata da Díaz.
Ritorno al passato
A poche settimane dalle elezioni municipali e regionali di maggio, con il curioso slogan «Oggi comincia tutto», Yolanda Díaz lanciava a Madrid la sua piattaforma, con la presenza massiccia di dirigenti di tutti i partiti, tranne che di Podemos, la cui leadership scelse di non partecipare non avendo avuto dalla vice-Presidente garanzie sulle primarie per la composizione delle liste in vista delle future elezioni politiche. A Podemos, molto debole sui territori, non fu consentito presentarsi assieme alle forti strutture locali di Más País a Madrid o dei valenziani di Compromís. Di certo Díaz nulla ha fatto per realizzare l’unità di tutte le forze per le elezioni di maggio. È solo dopo i previsti disastrosi risultati elettorali di Podemos (anche per via di scelte comunicative discutibili, orientate a un massimalismo verbale che ha portato scarsi risultati) che Díaz ha operato per unire i pezzi. Questo senza Irene Montero e altre teste da novanta di Podemos, verso cui ha imposto il suo veto.
Per quanto adesso si affermi che il risultato della nuova coalizione sia positivo, ben altre erano le previsioni. Díaz si è presentata per mesi come colei che avrebbe conquistato uno spazio molto superiore a quello della sinistra del Psoe, come colei che avrebbe riportato la sinistra ai fasti del 2015-16, a quella del «vero Podemos», capace di generare simpatie e minor rifiuto da parte dell’elettorato. I risultati però non sono stati quelli previsti. Yolanda Díaz ha svolto una campagna sottotono, ha concentrato i suoi sforzi sulle questioni dell’economia evitando lo scontro diretto con la destra. È stato Pedro Sánchez, dopo un inizio tentennante, ad andare decisamente all’attacco, sfoderando concetti propri del vocabolario «pablista» come «destra massmediatica», rispolverando l’ex-Presidente José Luís Rodríguez Zapatero come ariete contro la destra e alla fine è riuscito a conseguire il risultato desiderato: mobilitare l’elettorato attorno al Psoe. In questo senso l’intesa visibile tra Yolanda Díaz e Pedro Sánchez nella campagna elettorale è sicuramente servita a generare un’immagine forte della coalizione ma l’impressione è che ad averne beneficiato sia stato soprattutto il Psoe. E in un’elezione che, come è stato correttamente affermato, è sembrata per la prima volta più simile a uno scontro di tipo maggioritario tra coalizioni, Sumar non dà l’impressione di essere prossima a conquistare l’egemonia nello spazio progressista ma di fare da stampella al Partito socialista, ruolo che nel passato è stato svolto da Izquierda Unida e che Podemos nel 2015-16 ha provato a sovvertire.
Un futuro incerto
Neanche 24 ore dopo la chiusura dei seggi Ione Belarra dava una lettura ben diversa da quella, entusiasta, di Yolanda Díaz. Giornalisti, politologi e opinionisti che tante speranze avevano riposto nella Ministra non hanno accettato il verdetto dei numeri e hanno invece salutato con entusiasmo il 12,3% raccolto rispondendo negativamente al controcanto di Podemos. La tensione tra i «morados» e le altre forze resta alta e Podemos vorrà far pesare i suoi 5 deputati. Tuttavia qualche leggero «pizzicotto» nei confronti di Díaz viene anche da altre parti. Il coordinatore di Izquierda Unida, Alberto Garzón, molto vicino alla Ministra del lavoro, ha chiesto un maggiore distanziamento di Sumar dal Psoe. I valenziani di Compromís non assicurano il voto favorevole a Sánchez se non si accoglieranno le loro richieste. E resta da capire quale struttura voglia darsi Sumar.
Quello che appare certo è che a sinistra manchi da anni un vero dibattito democratico. Non si tratta solo delle primarie auspicate strumentalmente da Podemos ma di una vera discussione sul futuro dei progressisti spagnoli. Podemos non svolge da tempo la sua assemblea generale e Yolanda Díaz di fatto non ha nessun mandato. Provare a ragionare, discutere, magari fisicamente, sarebbe un modo per provare a superare una tensione altissima che per il momento, miracolosamente, non ha ancora distrutto la sinistra spagnola. Una discussione che prescinda dalle bordate degli influencer e degli opinionisti e che non limiti a Twitter lo spazio di dibattito – tossico – di una sinistra che ha il merito di essere una delle poche in Europa che non solo ha resistito all’ondata di destra ma ha anche conosciuto l’esperienza di tre anni di governo.
*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.
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