Quando il tunnel di Lenin incrociò quello di Kropotkin
Siamo nel 1971. Una galleria sotterranea sotto al carcere di Punta Carretas, in Uruguay, consente l’evasione di coloro che anni dopo andranno al governo del paese. Lavorando sotto terra scoprono un altro cunicolo leggendario
Nell’inverno australe del 2005 mi trovavo a Buenos Aires seduto, come succedeva quasi ogni giorno, al tavolo del caffè delle Madres de Plaza de Mayo. Mi ritrovai a condividere il tavolo con un signore, visto che i tavolini erano tutti affollati. Entrambi alle prese con un café cortado e tre medialunas, cominciammo a scambiare qualche parola e il mio interlocutore mi chiese le ragioni del mio soggiorno in Argentina. Quell’uomo mi offrì una succinta cronaca della casa delle Madres e aggiunse che lui era il padre di due ragazzi, entrambi desaparecidos. Quel posto era ormai la casa della sua famiglia, dove lui e la moglie riempivano il vuoto dell’assenza portando avanti la lotta dei loro figli. Mi disse anche che lui di professione era un ingegnere e mi parlò di un’opera di ingegneria rivoluzionaria: l’evasione dal carcere di Punta Carretas, a Montevideo nel 1931, tramite un tunnel realizzato ad arte da un anarchico italiano, costruttore di una galleria sotterranea che collegava i bagni di un padiglione del carcere con un edificio posto subito fuori dal perimetro della prigione. In questo edificio era stato allestito un negozio di carbone: una scusa che serviva a mascherare il traffico di individui arcigni che uscivano a ogni ora con sacchi scuri sulle spalle. Solo che quei sacchi non erano pieni di carbone ma di terra: la terra scavata dal tunnel sotterraneo. Non a caso il soprannome del costruttore del tunnel era «el ingeniero»: faceva insomma lo stesso lavoro del mio interlocutore ma era abilissimo sia a preparare piani d’evasione che ad allestire materialmente opere di genio rivoluzionario.
L’uomo che mi stava seduto di fronte mi disse che quella vecchia storia degli anni Trenta aveva un risvolto ancora più incredibile: molti anni dopo, dallo stesso carcere, attraverso lo stesso tunnel, evasero altri prigionieri. Stavolta non erano anarchici ma Tupamaros, giovani guerriglieri della stessa età dei suoi figli. Scapparono in massa: una fuga epica, in 111, senza dover far uso in alcun modo della violenza. Con le lacrime agli occhi e la voce rotta dall’emozione l’uomo mi raccontò che i Tupamaros scrissero anche un messaggio di saluto ai vecchi anarchici che avevano fatto risparmiare, con le loro vanghe, tempo e fatica nella fuga verso la libertà. L’uomo aveva la voce rotta, perché quei ragazzi in fuga avevano realizzato quello che i suoi figli non erano riusciti a fare: sfuggire dalla detenzione e ritrovare la libertà. Mi disse che la loro storia era contenuta in un libro che si intitolava La fuga dal carcere di Punta Carretas, scritta da un certo Huidobro, che era però di difficilissima reperibilità.
Se un tunnel anarchico porta al governo
Gli strani corsi della storia umana hanno trasformato il libro di Huidobro, suggeritomi dal padre di due ragazzi desaparecidos argentini, in una pietra miliare della storia recente della metà orientale del Rio de la Plata. Anche perché la storia ha riservato uno strano scherzo a quei rivoluzionari. Quei ragazzi evasi nel ’71, quei guerriglieri utopisti che facevano le rapine travestiti da prefiche in un funerale o che svaligiavano una fabbrica di giocattoli per regalare bambolotti e macchinine ai figli degli abitanti delle bidonville di Montevideo, quei rivoluzionari sognatori che quando esigevano – a punta di pistola, ovviamente – il riscatto di un industriale, poi lo versavano ai dipendenti della fabbrica del rapito… ecco, quegli stessi ribelli sono riusciti a raggiungere, anni dopo, i vertici delle istituzioni dell’Uruguay. Anche l’autore del libro sull’evasione di Punta Carretas, lui stesso uno dei fuggitivi, è diventato, nel ciclo progressista ormai concluso, per quei paradossi curiosi della storia, ministro della difesa dell’Uruguay. Si tratta di Eleuterio Fernández Huidobro, detto El Nato, uno che nel suo primo nome porta i semi etimologici dell’idea di sottrarsi a ogni cattività: «elèuthera» è una forma greca della parola «libertà». Il caso vuole che a nominarlo in questo pesante incarico sia stato proprio uno dei suoi colleghi d’evasione, uno dei 111 guerriglieri fuggitivi del ’71: il comandante Facundo, alias comandante Emiliano, alias Comandante Ulpiano, ovvero José Alberto Mujica Cordano, meglio noto come Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay
La storia del tunnel anarchico degli anni Trenta circolava negli anni Settanta come una leggenda tra i giovani di estrema sinistra di Montevideo. Nel 1971 alcuni di loro, tra quelli che entrarono nella guerriglia urbana come Tupamaros, si trovarono reclusi proprio in quel carcere, a Punta Arenas. I Tupamaros non erano un partito, erano un movimento rivoluzionario in armi. Al loro interno c’era un po’ di tutto, dai cristiani ribelli ai marxisti fino ai libertari. Questa ricchezza di contribuiti si rifletteva nella creatività delle loro azioni, che a lungo godettero del favore di una discreta fetta della popolazione uruguaiana. Ma i vertici del movimento, a cominciare da Raúl Sendic, nell’inverno australe del 1971 erano ormai confinati a Punta Carretas. Sicuramente non avevano tirato i remi in barca: in breve crearono una commissione per realizzare un progetto d’evasione, attraverso un metodo che, secondo la leggenda, aveva già dato risultati: quello del tunnel sotterraneo. Il piano fu approvato anche dagli attivisti all’esterno e nel mese di agosto si cominciò a scavare.
Come si scava un tunnel
Scavare un tunnel in carcere significa anche trovare una soluzione a un problema molto concreto: dove nascondere la terra? Il problema della terra che veniva estratta dal suolo è spiegato in un’intervista da Pepe Mujica, già Presidente dell’Uruguay, nel documentario Tupamaros: la fuga: «Ci eravamo inventati un meccanismo complesso per comprimere la terra. La sistemavamo sotto i letti e sotto le coperte. […] Alla fine la terra ci arrivava alla gola: dovemmo sistemarla in luoghi inverosimili ma riuscimmo a nasconderla». Mauricio Rosencof, un altro detenuto, oggi un influente giornalista e scrittore, ha raccontato al quotidiano argentino Pagina/12 che i detenuti usavano l’erba mate bagnata per ripulire la polvere della terra dal pavimento. Avevano anche rimosso una parte dei mattoni tra cella e cella in modo che tutti i detenuti Tupamaros, che stavano divisi in celle differenti a gruppi di 2-3, su 4 piani, potessero alternarsi ai turni di scavo raggiungendo la cella in basso dove iniziava il tunnel, la numero 73, dove stava un prigioniero comune che fu coinvolto nel progetto. Una volta rimossi i mattoni, per non renderli visibili alle guardie, i detenuti occultarono quella parte dei muri con poster di ragazze svestite, nella tradizione carceraria.
I prigionieri crearono anche dei rudimentali strumenti tecnici da geometri per poter prendere le giuste misure e scavare diritti secondo il progetto, raggiungendo una casa ubicata dall’altro lato della strada, fuori le mura del carcere. Era un lavoro collettivo: alcuni scavavano, altri insaccavano la terra, altri dalla cella 73 la tiravano su con le corde. Il problema è che più si scavava più i turni di lavoro dovevano ridursi perché l’aria veniva più facilmente a mancare. Inoltre raggiunto il muro del carcere, il suo piede di fondazione era molto duro, era quasi pietra, e invece che due metri al giorno a quel punto si andava avanti di dieci centimetri al giorno. Intanto la rete dei Tupamaros all’esterno falsificava documenti, preparava armi e denaro, teneva pronti auto e camion e appartamenti dove ospitare i fuggitivi: tutta la logistica necessaria alla clamorosa fuga di più di cento detenuti. I colpi per scalfire la pietra sotto il muro erano particolarmente violenti e per non farli arrivare alle orecchie dei secondini furono organizzate delle rumorose partite di fútbol ribelle tra i prigionieri, con ampio seguito di tifosi carcerati che urlavano. Superato il muro, sotto la strada gli scavatori sfondarono una parete di terra e a quel punto si ritrovarono, con un colpo di scena, dentro il tunnel degli anarchici evasi nel ’31: questo significò per loro immediatamente una boccata d’aria perché da lì arrivò ossigeno, che cominciava a mancare e che forse in qualche modo doveva circolare ancora grazie ai tubi installati quarant’anni prima dai costruttori del tunnel libertario (alla faccia di chi dice che gli anarchici sanno solo distruggere). Gli scavatori con quella scoperta risparmiarono fatica e soprattutto poterono recuperare energie e forze. E poi verificarono la verità storica della leggendaria fuga organizzata da un italiano quarant’anni prima. I Tupamaros si fermarono a salutare la memoria dei rivoluzionari anarchici che avevano compiuto quell’impresa tanti anni prima di loro. I due tunnel adesso comunicanti vennero ribattezzati uno Lenin e l’altro Kropotkin e nel secondo tunnel, quello scavato dagli anarchici, fu affisso un cartello: «Due ideologie e uno stesso obiettivo: la libertà».
Colpisce questo filo rosso della ribellione che lega le due evasioni. Un legame rinsaldato dal fatto che almeno un evaso del ‘31 e un evaso del ’71 si conoscevano. Uno degli anarchici che fuggirono attraverso il tunnel nel ’31 tornò dopo molti anni a Montevideo e aprì un’edicola nel mercato del Cerro, il mercato del quartiere operaio di Montevideo dove il giovane Pepe Mujica a metà anni Cinquanta, allora contadino e floricoltore, andava a vendere i suoi fiori. Chissà se il catalano avrà mai raccontato a Mujica la storia della sua evasione, chissà se quei ricordi siano mai stati utili a replicare un progetto d’evasione tanto spettacolare. Chissà se il vecchio Pedro, che scomparirà nel 1972, pochi mesi dopo la clamorosa nuova evasione da Punta Carretas, si sarà ricordato di quel giovane floricoltore e avrà riconosciuto nella foto del pericoloso Comandante Facundo, pubblicata dai giornali, quel giovane che vendeva fiori agli operai che tornavano a casa.
“In quanti scappiamo?” “Todos”
Ma lasciamo queste ipotesi e torniamo ai fatti. Anzi, ai badili e ai sacchi di terra. I lavori proseguivano febbrili. Dopo altri metri trovarono il collegamento di un tombino da cui arrivava continuamente aria. Il 4 settembre il tunnel è ormai finito. Giunge l’ordine di fuga. Si smontano i collegamenti tra cella e cella e si rimuovono i poster con le ragazze discinte, ma l’evasione è interrotta a causa di un inconveniente: un Tupamaro che doveva gestire una parte della logistica della fuga aveva avuto un incidente con la sua motocicletta. Era il compagno che conosceva la gestione delle auto sicure che dovevano portare i detenuti in appartamenti clandestini. Bisogna rimandare.
Il 5 settembre 1971 le forze di polizia di Montevideo sono richiamate in un quartiere collocato nella zona opposta a quella del carcere di Punta Carretas perché si stanno registrando una serie di improvvise manifestazioni di strada non autorizzate. Mentre l’attenzione delle forze dell’ordine si rivolge verso quei disordini, alcune auto si avvicinano a due edifici collocati nei pressi del carcere di Punta Carretas. Sono state appena rubate. Per la precisione nove auto, due camion e una motocicletta. Il piano dei Tupamaros sta funzionando alla grande: quei disordini sono solo una strategia per distrarre la polizia. A un segnale convenuto, si rimuovono di nuovo i poster dalle pareti divisorie delle celle e centoundici detenuti sfilano lungo il tunnel sotterraneo.
Ma all’ultimo momento c’è un inconveniente. Un detenuto comune chiama una guardia e chiede un’aspirina. La guardia si avvicina alla cella del detenuto tupamaro incaricato di gestire la farmacia del carcere. Il farmacista sente avvicinarsi la guardia dal tunnel, di corsa si infila nella cella numero 73, poi attraversa qualche muro per tornare nella propria cella. Quando la guardia apre lo sportellino, lui è dietro la porta: «Che serve, un’aspirina? Prendi». Lo sportello si chiude e il detenuto si infila di nuovo nel tunnel.
Bisognerà rimuovere un ultimo metro di terra per raggiungere la casa, che è già stata occupata dai compagni dei carcerati. Alle 3 del mattino del 6 settembre del 1971, con quasi cinque ore di ritardo, la maggior parte delle celle sono ormai vuote e i prigionieri si stanno allontanando dal carcere. Raúl Sendic, il leader tupamaro, aveva tenuto fede ai propri propositi: Alla domanda «In quanti scappiamo?», aveva risposto, semplicemente, con una sola parola: «Todos». Tutti.
*Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, è autore di 108 metri. The new working class hero (Laterza), PCSP (Alegre Quinto Tipo) e Amianto. Una storia operaia (Alegre). Per Alegre dirige la collana di narrativa Working Class.
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