Quanto è profondo il mare?
Chi sono e cosa pensano le persone che si stanno mobilitando con le Sardine? Settanta interviste fatte in piazza ne fotografano le aspettative, mostrando anche alcune differenze tra i manifestanti e i leader del movimento
Nei due mesi trascorsi tra il 14 Novembre e il 19 Gennaio, la scena politica italiana è stata caratterizzata dall’esplosione spontanea e inattesa di una nuova partecipazione di massa. È difficile, forse anche improprio seguendo le volontà delle Sardine stesse, denominarlo movimento politico. Ma senza dubbio la peculiarità di questo fenomeno è stata la partecipazione popolare ampia e costante, che ha riempito Piazza Maggiore a Bologna e poi molte altre piazze italiane.
A Novembre, nessuno si sarebbe mai aspettato che un tam tam di messaggi e inviti a partecipare a un semplice evento Facebook potesse generare il fenomeno politico più discusso del momento. Un inizio che come altri in questo decennio nasce sul web, luogo virtuale dove sempre più gente si rintana per esprimere opinioni lontane dal confronto vis a vis rendendo tutto più impersonale, sfumato, deresponsabilizzando il dibattito pubblico.
Per questo abbiamo pensato di andare nella piazza che i vertici delle Sardine hanno organizzato il 14 dicembre 2019 a Roma, per intervistare i partecipanti in carne e ossa. Cosa pensano? Sono tutti convinti che il modo migliore per risvegliare la politica sia il nuovo movimento organizzato da Mattia Santori e i suoi amici? Che opinioni hanno della situazione attuale, e soprattutto, chi sono? Siamo riusciti a intervistare circa una settantina di persone, che ci hanno permesso di costruire un quadro del pensiero di chi era presente a quell’appuntamento.
L’impressione più importante che abbiamo avuto è che tra la gente della piazza di Roma e i leader delle Sardine ci sia uno scarto importante: a un mese di distanza dalla nascita del movimento, tra i manifestanti ci si interrogava sulla situazione politica in Italia molto di più di quanto non facessero i loro leader, nonostante fosse diffuso un generale smarrimento e frequente la mancanza di un’analisi della situazione nel suo complesso. Uno degli elementi che ha contraddistinto la folla di San Giovanni rispetto a quella di piazza Maggiore è proprio questo: a Roma non c’è il tempo urgente di elezioni che si vive a Bologna, c’è quindi spazio per una riflessione più ampia. Non si percepiva, infatti, solo il bisogno di opposizione a Salvini (comunque presente e costante), ma anche una disperata richiesta di rappresentanza e di proposta alternativa; tema importante nell’attuale contesto di crisi della politica.
Verso le 15:00 c’erano ancora parecchi spazi vuoti, e i manifestanti erano soprattutto meno giovani; poi pian piano sono arrivati anche i giovani e i giovanissimi, considerati da molti i protagonisti di questo fenomeno. E la differenza di visione e di risposte che abbiamo sentito dalle varie persone a seconda dell’appartenenza a una determinata fascia d’età è stata evidente, nonostante il desiderio collettivo di essere in quella piazza fosse comune: fare qualcosa contro l’odio e i toni della destra. I più giovani erano attratti dalla semplice curiosità, i più politicamente attempati dalla speranza di ritrovare vecchi amici e compagni di lotte e battaglie. «Siamo accanto ai giovani» è quello che hanno risposto in tantissimi di quest’ultima categoria, lasciando emergere senza filtri un sentimento di supporto a una generazione che ha enormi difficoltà a trovare una propria identità politica.
Interrogati sul «come» occuparsi del bene della collettività, le risposte erano in alcuni casi vaghe, ma in altri sono uscite proposte e analisi. Una delle opinioni più ricorrenti della piazza – la cui composizione sociale si poteva immediatamente percepire come di classe media, talvolta medio-alta – era la generale ammissione del totale fallimento della sinistra negli ultimi anni. Più genericamente, da Berlinguer in poi – da molti visto come ultimo leader davvero rappresentativo. Una volta aperto in questo modo il vaso di Pandora, gli intervistati hanno iniziato a parlare liberamente, colpendo la sinistra piuttosto duramente: incapace di rappresentare i propri settori sociali di riferimento, commette errori banali, è inconsistente. Ma ciò che più manca oggi, secondo giovani e meno giovani, è proprio una cultura di sinistra, poiché coloro che l’hanno rappresentata nelle scelte nazionali hanno fatto esattamente l’opposto di ciò che avrebbero dovuto fare, distruggendo la coerenza tra ideali professati e politiche messe in pratica. Non a caso è stata ricordata da molti l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori da parte del governo Renzi. C’è stato, inoltre, chi ha parlato della scomparsa delle sezioni di partito sul territorio e chi delle scelte economiche sbagliate. Il lavoro è una preoccupazione riportata spesso, una sorta di filo comune intergenerazionale, a esclusione di chi ancora è studente. Qualcuno si è spinto a dare qualche suggerimento: lottare contro la corruzione, migliorare la sanità, riformare il fisco (suggerimento tipico tra i più anziani) e soprattutto investire su cultura e istruzione, per molti la vera chiave per evitare la vittoria alle urne della Lega.
Si apre a partire da qui un altro capitolo: quello del perché Salvini ha successo. L’incapacità della sinistra di riallacciare il tessuto connettivo tra le fasce più deboli della popolazione non sembra essere ritenuta l’unica causa. La maggior parte delle persone intervistate ha puntato il dito contro le modalità politiche di Salvini e del suo apparato mediatico, nonché contro l’«ignoranza» di chi lo vota. Nelle parole degli intervistati, Salvini avrebbe successo proprio grazie a una propaganda dal linguaggio semplice, che «parla alla pancia», e perciò arriva prima di altri alle persone più in difficoltà e a chi non possiede «strumenti intellettuali adeguati per decifrare la realtà». È vincente anche, secondo tante delle persone con cui abbiamo parlato, perché si presenta come «uomo forte», tipo di figura politica che ha facile successo tra chi «non si informa».
Il linguaggio utilizzato è dunque un tema fondamentale sollevato dai partecipanti alla piazza. E ciò che rimane dalle testimonianze raccolte è che alla politica servirebbe un linguaggio più accessibile. È certamente significativo, infatti, che alcuni abbiano parlato della necessità di reimpostare completamente il linguaggio e i mezzi comunicativi; un gruppo di giovanissimi liceali, critico come altri manifestanti sulla mancanza di presenza delle sinistre in periferia, segnalava per esempio la necessità di evitare di porsi su un livello umano e culturale superiore agli elettori delle destre per poter comunicare con loro, e riteneva opportuno per la sinistra abbandonare l’atteggiamento altezzoso e un po’ snob che è alla radice del distacco da molti percepito. In altre parole: basta dare dei razzisti a chi vota Lega, piuttosto si gestisca bene il territorio con piani di sviluppo per deviare l’attenzione dai temi dell’immigrazione e sconfiggere il razzismo. Alcune giovani praticanti avvocate arrivavano persino a riconoscere quanto di buono ci possa essere nel termine populismo: occorre saper parlare con e per il popolo, occorre un «populismo buono».
Abbiamo chiesto agli intervistati se secondo loro fosse necessaria o meno la competenza per chi fa parte dell’apparato ministeriale. Le risposte ricevute sottolineavano l’innegabile necessità della competenza per i politici – non solo attraverso un titolo di studio accademico, che per alcuni sembra non essere così importante, ma soprattutto con l’esperienza politica e la conoscenza della materia legislativa. Una caratteristica ritenuta importante che porterebbe i politici a essere consapevoli della natura delle scelte e che dovrebbe servire anche ad avvicinare la politica alla maggioranza delle persone.
La stragrande maggioranza degli intervistati ha ammesso di aver votato per uno dei partiti di centro-sinistra – tra cui emerge ovviamente il Partito democratico, considerato come unico argine al razzismo, e per alcuni addirittura al fascismo. Ma il loro voto non sembra una scelta convinta, quanto una riedizione del «meno peggio». Nessuno degli intervistati, comunque, auspica la fondazione di un nuovo movimento politico a partire da queste piazze, in alcuni casi perché crede che debbano rimanere uno stimolo per il centro-sinistra e la sinistra già esistente, in altri perché non convinti dall’estrema genericità delle proposte presentate finora.
Già queste risposte ad ogni modo fanno emergere alcuni elementi di contrasto tra i leader e una piazza che ci è sembrata un passo in avanti rispetto alle idee presentate da Mattia Santori nelle sue apparizioni televisive e dallo stesso palco di S. Giovanni. Analizzando le sei proposte che lo stesso Santori ha presentato a fine giornata, appare chiaro come siano tutte volte alla critica dei comportamenti pubblici di Salvini; nulla verte sul merito dei programmi politici del leader della Lega, tranne la proposta di abrogare il decreto sicurezza (punto sul quale Santori è stato comunque molto ambiguo, parlando inizialmente di «modifica», poi su pressione del pubblico si è corretto parlando di «abrogazione», e poi intervistato a caldo dopo il suo comizio di Roma è tornato a parlare di modifiche). Anche sulle critiche a Salvini le osservazioni di Santori appaiono in alcuni casi paradossali: come si può pensare di paragonare violenza verbale e fisica, novum giuridico che, come fatto notare da Barbara Spinelli, sarebbe abbastanza inquietante alla luce del diritto internazionale? O ancora, appare molto superficiale la più recente idea del «Daspo social», ovvero la cacciata dai social network di chi offende le regole di civiltà e non è identificabile (quali regole di civiltà? Fino a che punto rendere pubblica l’identificazione di un utente?).
I ragionamenti che abbiamo raccolto dalla piazza su tutti i temi politici del momento, sembrano aver chiaro che combattere le destre è un lavoro un po’ più complicato di quanto lascino intendere quei sei punti pronunciati da Mattia Santori. Se si ritiene necessario (ri)costruire una comunicazione che intelligentemente renda le persone consce di alcuni aspetti essenziali dei problemi politici, sociali ed economici, c’è sicuramente qualcosa che non funziona nella comunicazione scelta dagli organizzatori di queste piazze. Come abbiamo visto, manca completamente una denuncia di problemi molto sentiti dalla popolazione quali la mancanza e le condizioni di lavoro e la necessità di interventi pubblici su sanità e istruzione; e quando qualcosa viene detto appare ben poco approfondito. La sfida dovrebbe essere quella di mantenere la comunicazione accessibile, ma allo stesso tempo di alto livello. Un misto di competenza e familiarità che porti all’utilizzo di un linguaggio semplice ma non semplicistico. Una pratica certamente difficile: oggi il consenso delle masse ai partiti poggia su un equilibrio fragile alimentato dalla politica del linguaggio forte e del leaderismo, che sposta l’opinione pubblica più sulla base dei sentimenti che dei reali contenuti. Un consenso che, come riferito da un intervistato più anziano, non è più generato dalla politica, ma genera la politica. Sembra dunque di trovarci di fronte a un circolo vizioso, nel quale una volta conquistata la «massa» con le modalità prima descritte, essa stessa assume, nel corso del tempo, un modo di pensare che legittima e richiede posizioni leaderistiche. Bisognerebbe abbandonare l’arroganza e il paternalismo che hanno allontanato la sinistra dai suoi settori sociali di riferimento, e indagare le ragioni dei risentimenti popolari.
Dal punto di vista tecnico un lavoro del genere può essere realizzato imparando qualcosa da Salvini stesso? È l’ultima domanda provocatoria che abbiamo posto in piazza. Le risposte si sono principalmente concentrate nel condannare il «parlare alla pancia delle persone», concordando però sulla necessità di trovare delle modalità espressive semplici ed efficaci per riuscire a far arrivare i messaggi politici a tutti.
Alle Sardine va certamente riconosciuto il merito di aver portato alla ribalta una parte importante di italiani che rigetta la Lega, le sue proposte e le sue modalità – e che denuncia anche la mancanza della sinistra. Ma alla luce delle osservazioni sviluppate a partire dall’ascolto delle loro voci a Piazza San Giovanni, tutto questo non sembra bastare. Non bastano i sei punti enunciati da Mattia Santori. Non basta una comunicazione basata sull’esaltazione della bellezza dei buoni sentimenti. Sarebbe interessante sapere cosa potrebbe succedere all’energia popolare mobilitata dalle Sardine se esistesse una forza, un movimento o un partito, credibile e con una cultura politica preoccupata più degli strati sociali medio-bassi che delle leggi del mercato; e in grado di coniugare le prese di posizione di merito con la capacità di trasmettere sentimenti, senza limitarsi a esporre un decalogo di buone maniere.
*Paolo Cornetti è studente di Master in Consulenza Politica e Marketing Elettorale presso Eidos Communication. Christian Dalenz è giornalista professionista. Laureato in economia a Roma e Londra, ha scritto per Agi, L’Espresso, Il Manifesto e altre testate. Cura il programma radiofonico “Brainstorming” per Non è la Radio. Violetta Marchionne è organizzatrice di eventi e social media manager per diversi Festival a Roma e Firenze. Laureata in Scienze della Politica a La Sapienza di Roma, approda nel mondo degli eventi culturali con il Master in Management degli eventi dello spettacolo a Firenze. Francesco Paolo Panei è laureando magistrale in Fisica presso l’Università di Roma la Sapienza. Si occupa in prima persona di ricerca nel campo della biofisica connessa alle malattie degenerative.
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