
You shouldn’t be dancing
Considerare solo i fenomeni culturali che ci assomigliano significa inseguire un'idea slegata dalla realtà: il caso del Pci e della Febbre del Sabato Sera
Nel marzo del 1978 esce in Italia La febbre del sabato sera: Tony Manero è un proletario (blue collar) di Brooklyn a cui piace ballare la disco music; per il pubblico americano, non è secondario che il personaggio sia italoamericano, mentre probabilmente per il pubblico italiano è rilevante che sia italoamericano l’attore che lo interpreta, John Travolta. Nel film, gli Italians di New York – che pure avevano espresso due sindaci con La Guardia (1934-1945) e Impellitteri (1950-1954) – sono ancora una minoranza etnica, sono dei marginali in conflitto sulla linea del colore con gli altri marginali delle gang limitrofe, e i pretesti sono sempre gli stessi: controllare il territorio e le donne. La struttura narrativa è così ordinaria da risultare standardizzata, ma è attraversata da un realismo che espone nelle sue bassezze le forme in cui, con automatica naturalezza, si articolano mascolinità e virilità: orgoglio, violenza, onore, stupro. Tony però ci sembra quasi un po’ meno stupratore, perché cede l’ambito trofeo della gara di ballo alla meritevole coppia portoricana che il pubblico aveva discriminato, così pacificando il conflitto razziale e ponendo le basi della sua redenzione come personaggio positivo. Per Tony il ballo è una cosa pura, è mostrarsi sulla pista e dimostrare un talento, da non inquinare con pregiudizi di classe o di razza. Tutto ciò è molto americano; torniamo in Italia.
Brillantina e discoteche
Nel settembre del 1978, La città futura dedica due pagine intitolate “Brillantina e discoteche” al fenomeno della disco music, che in quell’estate aveva dominato le sale da ballo. La città futura era la rivista settimanale della Federazione Giovanile Comunista Italiana, all’epoca guidata da Massimo D’Alema, che sostituì le ormai fiacche e grigie pagine di Nuova generazione cercando di riconquistare un pubblico (e cioè una militanza) che da una decina d’anni si era spostata più a sinistra. E più a sinistra del Pci stavano infatti riviste che già affrontavano con maggiore autonomia la musica, la letteratura, il cinema, la cultura e le controculture, come Re Nudo, Muzak, Gong; nondimeno, La città futura fu un esperimento lungo due anni (1977-1979) che per il panorama della stampa comunista italiana fu una novità, aprendo ad argomenti di cultura di massa come, appunto, la febbre del sabato sera:
«Sbagliato è l’atteggiamento di chi condanna il fenomeno o dice “Sì, è importante capire il perché, però…”, perché denota atteggiamenti moralistici e di aristocratico distacco, fra l’altro nei confronti di giovani che sono in grande maggioranza operai e ragazze. Dall’America arrivano miti a getto continuo, e quello di John Travolta è il più recente: il tempo si incaricherà di dire se e quanto sia effimero, ma oggi esso è un mito potente e affascinante per milioni di giovani. Scrollare il capo delusi di fronte ad esso è un modo sbagliato e consolatorio di affrontare il problema. Si può “fare politica” ovunque i giovani organizzano i propri bisogni, veri o “falsi” che siano. Anche nei locali nei quali domina l’immagine sicura ma fragile di John Travolta» (Massimo Buda, LCF, 33, 6-9-1978, p. 8). Peccato che queste aperture alla popular culture rimangano poco più che episodiche professioni d’intento, e non è un caso: una battaglia delle idee combattuta sul terreno della cultura di massa era anacronistica?
Cultura popular
Dal 1945, anno più anno meno, la battaglia del Pci per l’egemonia culturale si basò sul necessario contributo di intellettuali ma, una volta reclutata questa milizia che feriva senza spada e con la penna (o il pennello o la cinepresa), il sistema di alleanze e appartenenze politiche o partitiche si “istituzionalizzò” molto rapidamente, sclerotizzando il ben diverso progetto gramsciano. La cultura degli intellettuali era fermamente ancorata alla biforcazione tra cultura alta e bassa, con gli intellettuali che si posizionavano saldamente sul versante alto e definivano così, in un negativo fotografico, ciò che cultura non era. La cultura bassa/popolare fu quindi archiviata, superata, e, mentre l’Italia spostava la manodopera dall’agricoltura all’industria, gli intellettuali parlavano agli operai, degli operai, o al posto degli operai; dei contadini, rimasti indietro, e delle loro culture, potevano occuparsi etnologi e antropologi, affezionati a ciò che la “Storia” lasciava ai lati, come se i contadini diventati operai non portassero con sé mentalità e forme di vita profondamente radicate, che si sarebbero frastagliate e innestate nei nuovi ambienti.
Sorella della società dei consumi, la cultura di massa (una popular culture all’italiana) si installò saldamente nel nostro paese già a partire dal dopoguerra e fu consacrata durante il boom economico (1958-1963 circa) con l’aiuto dei mezzi di comunicazione: radio e televisione. La potenza dirompente di queste innovazioni frastornò chiunque, indipendentemente dai livelli di cultura: politici e intellettuali di sinistra chiamati a esprimersi sulla cultura di massa spesso si limitarono a condannarne le degenerazioni e i pericoli per le masse.
Nell’agosto del 1962, sulle pagine di Rinascita (la rivista di elaborazione politica del Pci, destinata soprattutto a un pubblico interno di militanti, dirigenti di partito e intellettuali), Togliatti rispondeva così a un giovane che gli chiedeva consiglio: «Gran cosa la radio e la televisione; ma l’uomo che riduce tutta la sua vita libera, giorno per giorno, a quello schermo e a quell’altoparlante, non è più un uomo libero. Qualcun altro pensa per lui, sottraendogli la visione dei grandi, veri problemi che oggi agitano il mondo. La lotta di classe organizzata [dal partito] agisce, è vero, come forza liberatrice. Ma chi guiderà il giovane, che da solo si travaglia nella ricerca?».
Nel marzo del 1965, quando due giovani lettori scrivono all’Unità, quotidiano ufficiale del Pci, per affermare che «i Beatles sono proprio l’espressione accorata e genuina di sentimenti e di situazioni sociali di una gioventù disperata e angosciata, che vuole rompere con le vecchie tradizioni». Ma il giornale li redarguisce: «Voi dite che i Beatles rappresentano un’evasione dalla vita monotona e borghese, sono un prodotto della nuova generazione inglese che, anche se agiata, è profondamente insoddisfatta. Ecco che cosa sono dunque i Beatles. E non c’è niente di più inutile e di vano dell’evasione: pur riconoscendo ai giovani tutto il diritto di “evadere” nel modo che è confacente ai loro gusti, o a una determinata situazione sociale, dobbiamo dire loro, con tutta franchezza, che la vita non è evasione, e che l’evasione, quando è illimitata, si finisce sempre col pagarla a caro prezzo, in qualunque parte del mondo».
Comunismo e consumismo erano vicini solo quando si sfogliava il dizionario, e per il Pci era imperativo che l’American way of life, restasse, appunto, di là dall’Atlantico. Ma questo ciclone di impulsi commerciali e mentali non stabiliva solo l’esteriore corrispondenza cosmetica tra consumi e benessere – che, passi la bestemmia, era emancipazione –, portando bensì allo sviluppo di nuovi comportamenti e sistemi di valori che non fu semplice interpretare in itinere.
Musica gastronomica
Le pagine di Adorno sulla musica di consumo furono un punto di riferimento per molti e la sua analisi di questa musica ripetitiva, predigerita e confezionata per assuefare l’ascoltatore a un’ipnosi succube dei grandi apparati della persuasione apparteneva coerentemente alla sua lucida, feroce e inorridita critica della cultura di massa, ma comprendeva in sé il tipico difetto di fabbrica di Adorno: non si può odiare quella cultura senza disprezzarne i fruitori, senza disprezzare la massa, e le conseguenze che tale atteggiamento ha sull’intellighenzia di un partito che delle masse si fa portavoce e avanguardia sono evidenti.
Forse mancavano gli strumenti: in Italia le scienze sociali erano segnate dalla diffidenza marxista per le “scienze borghesi” e dal disprezzo crociano che le riteneva meno nobili delle discipline umanistiche, le “scienze dello Spirito” (un residuo storico – questo sì – che ancora sopravvive nei più miopi, o presbiti, baroni umanistici dell’accademia di oggi e, farsescamente, nei più ciechi tra i loro proseliti).
Pertanto, rimasero eccezioni le voci che pure ci furono e considerarono la società dei consumi e la cultura di massa non tanto come avversari contro cui lottare o ostacoli da superare, quanto piuttosto come nuove condizioni generali e situazioni antropologiche entro cui agire e di cui interpretare le tendenze. Non sarà superfluo dire che queste voci furono eccentriche rispetto alla politica culturale del Pci o proprio estranee ed esterne al partito: ad esempio il regista e poeta Pier Paolo Pasolini, lo scrittore e filosofo Umberto Eco e il sociologo Franco Ferrarotti. Loro pensavano che fosse necessario distinguere tra la cultura di massa in quanto situazione antropologica in cui l’evasione occasionale diventa la norma e l’effettivo momento di evasione, cercando di far breccia nella hybris degli intellettuali che rifiutavano aristocraticamente di interessarsi alla cultura prodotta nella società dei consumi.
Sarebbe tuttavia disonesto non menzionare Gianni Borgna, che dentro il Pci fu probabilmente il più attento e capace osservatore e ascoltatore di quello che la cultura di massa proponeva al pubblico italiano: Borgna, ad esempio, vide nel festival di Sanremo non solo uno strumento di consenso a vantaggio dell’apparato ideologico democristiano, ma soprattutto il fedele specchio del costume nazionale e il teatro di una lotta per l’egemonia tra vecchio e nuovo, conservatore e progressivo, sostenendo la necessità di concentrarsi sui messaggi che Sanremo diffondeva in ogni casa, in ogni famiglia italiana.
È vero, inoltre, che il Pci e la popular music convivevano pubblicamente da decenni: fin dall’immediato dopoguerra, a livello locale o nazionale, le Feste dell’Unità mettevano in atto una settimana di socialismo realizzato in cui si parlava di politica, si organizzava la lotta, si mangiava, si beveva, si ballava e, insomma, si faceva festa. Accanto alle delegazioni delle repubbliche sorelle sovietiche, che si esibivano in danze popolari coi costumi tradizionali, cantavano tradizionali canzoni italiane, giovani cantanti pop in ascesa e cantautori di sinistra come (da Claudio Villa a Gianni Morandi fino a Fabrizio De André), e la commistione di generi rispondeva all’esigenza di presentare un intrattenimento variegato che potesse piacere ai molti e diversi frequentatori delle Feste dell’Unità, e a molti e diversi comunisti: donne e uomini, operai e studenti, giovani e vecchi. Un’analoga impostazione pragmatica è ancora più evidente nelle programmazioni culturali e musicali delle Case del popolo sparse per l’Italia, in cui, vista l’assenza di una linea strategico-estetica dall’alto che non si limitasse al grado zero (musica politica), organizzare la parte ricreativa spettava alla buona volontà e ai singolari ingegni dei militanti dal basso, che per tutto l’anno allestivano concerti di cantautori e cori politici, concorsi per cantanti locali emergenti e immancabili serate di ballo liscio.
O Bach o Guccini o Travolta
Nel febbraio 1979, La città futura pubblica un sondaggio basato su circa mille questionari inviati al giornale nel giro di un paio mesi: quali sono i gusti musicali dei lettori, e quindi dei comunisti e delle comuniste? L’aut-aut provocatorio con cui la rivista lancia il sondaggio (Bach, Guccini o John Travolta?) esemplifica e semplifica l’opzione tra musica classica (imprescindibile “cultura colta” e pietra di paragone), canzone d’autore (impegnata, di sinistra, generazionale) e musica di consumo (Travolta era ormai un divo musicale consacrato dal successo di Grease, 1978).
«Ma come, vengono disertate iniziative politiche serie e trovano successo queste sciocchezze?, fu la reazione di alcuni. Il fatto è che tuttora molti compagni continuano, per un pregiudizio da funzionari della politica (che appunto è una cosa “seria”), a considerare fenomeni come la musica, il ballo, le forme di divertimento e della cultura di massa alla stregua di sciocchezze, cose futili o strane […]. Eppure sono proprio questi atteggiamenti di sufficienza e disinteresse nei confronti di argomenti e tematiche di questo tipo a produrre l’estraneità verso la politica e le manifestazioni di scollamento fra “politico” e “personale”, specie fra i giovani, di cui tanto si è discusso in questi mesi e che è fra le cause delle difficoltà odierne della Fgci a fare politica di massa fra i giovani, a esservi presente e a esserne avanguardia riconosciuta» (Massimo Buda, LCF, 7, 21-2-1979, p. 5).
Il sondaggio incorona tra gli italiani Francesco Guccini e Giovanna Marini, coppia in qualche modo omogenea a Baez e Dylan, i solisti internazionali preferiti, e se gli album stranieri più ascoltati dai comunisti che scrivono al giornale sono Street-Legal di Bob Dylan e Comes A Time di Neil Young, tuttavia al 3° e 4° posto si piazzano le colonne sonore di Saturday Night Fever e Grease, manifestando così una preferenza per la musica di consumo, che supera tra gli altri Patti Smith, David Bowie, Genesis e Inti-Illimani (colpa di Dalla? «La musica andina, che noia mortale, sono più di tre anni che si ripete sempre uguale», Il cucciolo Alfredo, 1977). Non ci stupisce quindi che la canzone d’autore, impegnata, politica, che mostra un’altra America o denuncia questa Italia, sia plebiscitariamente apprezzata – questa è quasi una non informazione, è un dato conforme all’oggetto di studio, insomma, è prevedibile; è necessario, in questo caso, concentrarsi piuttosto sull’incrinatura dell’omogeneità che il travoltismo (fortunatamente) rappresenta, e che ci impedisce di considerare quel migliaio di lettori e lettrici (e più in generale la gioventù comunista) come un esercito di automi omologati alla musica ortodossa.
Per la gioventù comunista italiana, la disco music e le canzoncine di Grease erano quanto di più lontano dalla canzone politica del Nuovo Canzoniere Italiano, eppure entravano dalle stesse orecchie, dimostrando che il temuto spettro dell’evasione – incarnazione dell’abbindolamento capitalista – non aveva alcun vantaggio euristico o politico, ma serviva solo da spauracchio per ogni militante serio, o serioso. Ha perso chi ha lottato solo con chi ascoltava la sua stessa musica: la cultura è un tutto, e considerarne la parte che più ci corrisponde o che più ci fa comodo dialetticamente ha forse un vantaggio tattico, ma dissipa energie sul piano strategico, porta cioè a costruire una visione di lungo periodo che trascura elementi rilevanti (rilevanti perché reali, concreti), lasciando che l’azione politica sia trainata dalla mosca cocchiera di un’idea slegata dalla realtà.
Con due vistose sostituzioni, quindi, adattiamo o travisiamo Gramsci (Quaderni del carcere, 15 [II], §58): «La premessa della nuova cultura non può non essere storico-politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell’humus della cultura di massa così com’è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e convenzionale».
Noi dobbiamo ancora e sempre saper cavare il sangue dalle rape, considerare un prodotto culturale nella sua complessità, nel suo contesto e nel suo significato per il pubblico a cui si rivolge. Se John Travolta canta in un bosco fa rumore? Solo se qualcuno lo ascolta.
* Ivan Pagliaro è un disoccupato, laureato in storia contemporanea. Questo articolo è uscito su Jacobin Mag.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.