Il reddito e l’intreccio delle working class
Domani a Roma in piazza per il reddito: un buon avvio per contrastare la pressione durissima che il moderno capitalismo opera sulle vite e sui bisogni affermando una dimensione di classe plurale
Non è la prima volta che si prepara una manifestazione sui temi sociali, attorno a temi squisitamente sociali. Quella che si tiene sabato 27 maggio a Roma, «Ci vuole un reddito», potrebbe essere l’ennesima, ma quest’anno si respira un’atmosfera diversa.
L’elenco di associazioni promotrici è particolarmente nutrito, impossibile citarle tutte ma per una manifestazione che nasce da comitati locali e da strutture del sindacalismo alternativo la presenza dell’Arci e di quattro categorie nazionali della Cgil è il segno di un’attenzione importante. Ma non è il problema del posizionamento o delle scelte di strutture organizzate – comunque decisive per la riuscita di una manifestazione – che conta davvero, quanto il fatto che questioni di vita reale e quotidiana – «casa, salario, reddito» è lo striscione di apertura della manifestazione – si prendano lo spazio che meritano, la centralità che loro compete e mettano in moto un processo di unità.
La campagna «Ci vuole un reddito» nasce subito dopo gli annunci di abolizione del Reddito di cittadinanza su iniziativa di una rete di realtà romane tra cui l’associazione mutualistica Nonna Roma e la Camera del Lavoro Autonomo e Precario (Clap). Ne viene fuori un lavoro sotterraneo che non punta a iniziative per la visibilità o la risonanza mediatica, ma che provano a tessere rapporti. L’elenco delle strutture che decidono di costruire la manifestazione, e soprattutto la loro eterogeneità, dimostra che il metodo è giusto.
La campagna coglie un vuoto: cosa succede nel corpo sociale con la messa in discussione di una delle poche misure degli ultimi decenni che ha toccato il nervo scoperto della povertà sociale, sia pure in forme parziali e, soprattutto nelle forme di workfare, discutibili. Il Reddito di cittadinanza è infatti la misura simbolo del M5S al governo, paradossalmente ottenuto nel momento in cui il governo è gestito in condominio con il razzismo leghista, che diventa per converso il simbolo della restaurazione da compiere. Già il governo Draghi inizia una parziale opera di smantellamento, rendendo più difficile rifiutare proposte di lavoro indecenti e soprattutto incuba un attacco politico e culturale – che passa sotto la narrazione orientata dei «divanisti – che viene reiterato per mesi e mesi anche da forze sedicenti progressiste. Con il governo delle destre, e con la propaganda di Giorgia Meloni innanzitutto, si passa al primo e vero smantellamento: il Reddito viene di fatto abolito, nasce l’Assegno di inclusione che crea disparità di trattamento e discriminazioni evidenti in base all’età e alla situazione familiare e si forma una più decisa forma di ricatto sociale con la nascita del Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), rivolto ai soggetti tra 18 e 59 anni in condizioni di povertà assoluta e senza i requisiti per accedere all’Assegno di Inclusione. L’Sfl si traduce in un assegno mensile di 350 euro per 12 mesi fortemente legato alla disponibilità ad accettare, di fatto, qualsiasi tipo di lavoro.
È proprio il decreto lavoro del governo Meloni – spiega a Jacobin Marco Filippetti delle Clap di Roma – a creare un salto di qualità perché non solo ci mette di fronte alle modifiche del reddito di cittadinanza, ma compie un legame immediato con la condizione complessiva del lavoro, a partire da quello precario.
Dopo il primo maggio, data simbolica scelta da Meloni per posizionare il suo governo sulla questione sociale e del lavoro – tutta all’insegna della riduzione del cuneo fiscale e del peggioramento delle condizioni per i contratti a tempo determinato – i comitati rilanciano la manifestazione con un appello «Per il diritto all’esistenza senza condizioni» in cui il corteo del 27 maggio viene presentato come manifestazione «per il reddito e il salario». Una novità importante in un movimento che per molto tempo ha concepito quei due elementi come divisi e separati e che invece, in una condizione di generale impoverimento del lavoro, di tutti i tipi, pone le basi per un’unità possibile. L’appello si rivolge «alle precarie e ai precari, a chi percepiva il reddito di cittadinanza e ora si ritrova senza sussidio, ai disoccupati e alle disoccupate, a chi è in emergenza abitativa, a chi fatica ad arrivare alla fine del mese a causa dei bassi salari, a chi è discriminato, marginalizzato, stigmatizzato, ai poveri e alle povere di questo paese, alle realtà di base, associazioni, sindacati indipendenti, collettivi autorganizzati, gruppi informali, alle e agli studenti delle scuole e delle università, alla marea femminista, a chi pensa che lottare per una vita degna sia ancora possibile». Una base per una convergenza ampia, per unità sociali necessarie nel momento in cui la working class ha bisogni urgenti differenti. Utilizziamo appositamente il termine working class perché nella definizione inglese sembra rimandare a un singolare plurale, a una diversificazione che prova a dare voce a soggettività diverse ma convergenti, a bisogni non solo appaiati ma intrecciati. Questo è almeno un auspicio legittimo, dopo anni di dispersione e frantumazione delle istanze sociali e dopo la presa d’atto che non esiste un’unica rivendicazione che, d’incanto, può pretendere di fungere da collante unificante.
Non è quindi casuale che, anche grazie a esperienze di alleanza diretta e convergenza praticata sul campo, come quella alimentata costantemente dalla vertenza del Collettivo di fabbrica della Gkn con le sue tante manifestazioni di convergenza sociale, ci siano in piazza l’ecologismo di Friday for future o le associazioni studentesche (e proprio alla Sapienza di Roma è in corso in questi giorni una mobilitazione ecologista, «End Fossile»). E probabilmente quello slogan che dovrebbe rappresentare il corteo offre anche lo schema di un allargamento possibile: casa, reddito e salario insieme alla salvaguardia del pianeta, indicano i temi di possibili comitati unitari che mettano insieme esperienze diverse in grado di darsi l’obiettivo fondamentale di questa fase politica: raggiungere una working class silente e assente.
La campagna finora solo parzialmente ha potuto abbracciare soggettività esterne ai circoli più attivi: «Ha pesato molto – spiega Filippetti – anche lo stigma sociale contro i percettori del Reddito di cittadinanza, per cui nel momento di esporsi molti e molte non se la sono sentita di subire i possibili attacchi di tanta parte dell’informazione». Pesano molte cose, ovviamente, lo si vede anche nelle recenti manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil, incapaci di andare oltre i propri iscritti e più stanche del solito nell’agganciare una disponibilità di massa e diffusa. Le ragioni di questa difficoltà sono molteplici e complesse e non è l’intento di questo articolo passarle in rassegna. Basti dire che il problema non è risolvibile con operazioni di immagine o con slogan ben curati.
«Sabato 27 vuole essere un inizio – dice Marco – non è una manifestazione che voglia affermare una forza, sicuramente è un’occasione di riscatto per chi si è sentito umiliato dagli attacchi contro il Reddito di cittadinanza». Il corteo rappresenta così la possibilità per coltivare fili di dialogo tra esperienze diverse e affermare l’utilità dell’iniziativa sociale capillare di cui si è avuta tanta prova, ad esempio, durante la pandemia da Covid, nel corso del lockdown quando solo le realtà di base, del mutualismo inedito o dell’associazionismo solidale, hanno saputo costruire una risposta all’emergenza. E non è un caso che tra le realtà promotrici della campagna e del corteo ci sia una struttura che della solidarietà orizzontale e del nuovo mutualismo ha saputo fare una pratica di massa come Nonna Roma.
La campagna ha avuto anche interlocuzioni con il mondo politico, realizzando incontri specifici con Pd, M5S, Alleanza rosso-verde per discutere delle possibili iniziative dell’opposizione parlamentare; in piazza ci sarà anche l’Unione popolare. Con molta cautela, molta circospezione, come è giusto che sia rispetto a forze politiche che troppo spesso utilizzano l’iniziativa sociale come passerella e supporto delle proprie aspirazioni elettorali. E che sempre più consolidano una certa impermeabilità al rapporto con la società vissuta come realtà separata su cui si sovrappone la dimensione e l’iniziativa politica. La difficile equazione che chiede di trovare le forme per una influenza significativa della critica radicale alle leggi della diseguaglianza capitalistica – molti profitti a disposizione di pochi, miseria e disperazione crescenti – può essere affrontata con tentativi come questo, in grado di fare tesoro di antiche lezioni di contrapposizione tra sigle e organizzazioni diverse, in verità sempre più fragili, o di esperimenti abbandonati anzi tempo. Si pensi alla stagione della Coalizione sociale lanciata dalla Fiom di Maurizio Landini che aveva destato molte attese e coglieva il segno di un vuoto di iniziativa, sociale e politica, ma che poi fu abbandonata senza nemmeno farne un bilancio critico.
La mobilitazione di sabato 27 può costituire un buon avvio per lavorare su più temi che hanno a che fare con la pressione durissima del moderno capitalismo sulle vite e sui bisogni – il salario, il reddito, la casa, ma anche l’orario e i tempi di lavoro, il contrasto alla violenza di genere, i diritti civili, il diritto a una transizione ecologica che non venga pagato dai più deboli – affermando una dimensione di classe plurale. Parole d’ordine efficaci, idee di cambiamento, esperienze concrete, pratiche sociali: il materiale politico e umano per costruire alleanze durature esiste, è tempo di costruire nuove narrazioni e nuove storie.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre 2018) e di Si fa presto a dire sinistra (Piemme 2023).
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