Le tante facce della povertà
Ogni fase della lotta tra le classi ha a che vedere con il modo in cui i poveri si riconoscono e si rappresentano, come agiscono collettivamente e come si percepiscono
Se la storia delle società che si susseguono, come dicono Marx ed Engels nel loro Manifesto, è storia di lotta di classe, ci accorgiamo anche che ogni singola fase di quella lotta ha a che vedere con il modo in cui i poveri si riconoscono e si rappresentano, come agiscono collettivamente e come si percepiscono parte della stessa lotta. Lo sa bene, in fondo, anche la destra. Ecco per quale motivo il governo di Giorgia Meloni si è messo sulla scia di trent’anni di politiche neoliberiste per farci credere che chi si trova all’ultimo piano della scala sociale in fondo lo merita, ha qualche colpa da espiare o non si è dato da fare abbastanza.
È un ribaltamento rispetto all’idea, dominante fino alla prima rivoluzione industriale, secondo la quale una vita povera serviva ad avvicinarsi alla beatitudine. Da quando il lavoro è diventato l’esercito che combatte suo malgrado la guerra dichiarata dal capitalismo in nome del profitto, la povertà è diventata una colpa. Lo racconta bene Elettra Stimilli nell’articolo che apre questo numero di Jacobin Italia. Eppure, come spiega Domenico De Masi discutendo con Salvatore Cannavò, viviamo in una società che tende a escludere sempre più persone dal processo produttivo diretto: da qui deriva l’infelicità tipica del capitalismo. Enrica Morlicchio e Andrea Morniroli forniscono il quadro delle crescenti disuguaglianze in Italia: il numero dei poveri assoluti è più che raddoppiato in soli dieci anni. Giacomo Gabbuti ricostruisce la genealogia della povertà, o meglio del modo in cui essa è stata approcciata dall’Unità d’Italia in poi, dal liberalismo compassionevole alle lotte per il welfare. Elisa Cuter ragiona attorno al modo in cui i poveri sono stati portati sul grande schermo, ponendo l’accento sul rischio che finiscano per essere colpevolizzati o compatiti ma mai raccontati per quello che sono. Ci sono barriere anche immateriali che separano i ricchi dai poveri: Giuliano Santoro riflette sul modo in cui la cronaca nera viene utilizzata per costruire ghetti e alimentare disuguaglianze. Riccardo Antoniucci, invece, si cimenta con l’epica delle rivolte dei poveri da Spartaco all’Italia degli anni Settanta: ci sono stati momenti in cui il popolo dell’abisso ha fatto irruzione nella grande storia imponendo la sua presenza.
Eppure, come dimostrano Elena Granaglia e Patrizia Luongo, non si impoveriscono soltanto gli esclusi dallo sviluppo: dilaga l’indigenza anche tra i lavoratori e le lavoratrici. Ci sono diversi tipi di povertà e tanti modi di rappresentarla. Carlotta Caciagli si cimenta con quella formativa, Barbara Kenny con la violenza di genere che produce la povertà femminile, Valeria Cirillo e Michele Bavaro con il rapporto tra la centralità del lavoro di cura e la sua caratterizzazione in quanto lavoro povero, Giada Coleandro e Beatrice Ruggieri parlano della povertà energetica, Alessandra Maggi del diritto all’abitare come base fondamentale per sfuggire al bisogno. Alberto Prunetti dà voce a un libro working class per esprimere la contraddizione tra industria letteraria e precarizzazione del lavoro cognitivo. Nell’inserto apribile, le infografiche curate da Giacomo Gabbuti mostrano con i dati le diverse dimensioni della povertà raccontate negli articoli.
Come si resiste di fronte a tutto ciò? Lorenzo Zamponi ripercorre alcune esperienze di nuovo mutualismo, tramite le quali gli ultimi non vengono soltanto assistiti: l’obiettivo è che diventino soggetti in grado di lottare per il futuro assieme ad altri. Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi, invece, partono dal paradosso del Reddito di cittadinanza, strumento modesto eppure odiatissimo da destre e imprenditori, per capire come allargare quelle garanzie e costruire forme di lotta.
E ancora: il rapporto tra povertà e inflazione (non necessariamente svantaggioso dal punto di vista delle lotte, come ci dicono alcuni precedenti storici) è oggetto dell’analisi di Danilo Corrradi e Marco Bertorello. Mentre Mikhail Maslenikov smonta la narrazione secondo la quale la globalizzazione in questi anni avrebbe ridotto il tasso di povertà.
A differenza dei numeri di Jacobin Italia usciti finora, abbiamo deciso di non affidare lo sguardo sul tema della povertà a delle illustrazioni ma alle fotografie di Luciano D’Alessandro, tra i più grandi fotogiornalisti del Novecento italiano, attualizzate dalle matite di Antonio Pronostico.
La sezione ripresa dal n. 48 dell’edizione statunitense di Jacobin che esce in contemporanea a noi,ha come tema ciò che molto spesso diventa un fattore di divisione tra i poveri: il nazionalismo. Daniel Finn inquadra il rapporto tra marxismo e questione nazionale. Il sociologo Kevin B. Anderson spiega che la visione dello sviluppo di Marx non era talmente lineare da non fargli vedere le specificità dei paesi non occidentali. Della deriva sovranista di alcuni paesi del Bric, che dovevano sfuggire alla globalizzazione guidata dai paesi del nord del mondo, si occupa Grace Blakely. Ricordandoci che stiamo parlando di entità statuali storicamente determinate, Owen Hatherley si cimenta con le teorie che sostengono che l’Ucraina sia una nazione inventata per dirci: forse lo è esattamente come tutte le altre. Gregor Benton ricostruisce la storia dell’esperanto: lingua costruita a tavolino per facilitare l’internazionalismo che ha accompagnato l’ascesa della solidarietà oltre i confini. E Benjamin Fogel affronta proprio il tema dell’internazionalismo, nato insieme alla classe operaia e ancora attuale in un mondo che sempre di più mostra problemi difficili da affrontare entro confini e territori separati.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.