Una giustizia senza sbarre
Qualche lettore distratto si stupirà di vedere associato il giacobinismo al rifiuto del giustizialismo. Ma ormai saprete che il giacobino nero che abbiamo sulla testata apre prospettive inedite e inaspettate. L'editoriale del n. 25 di Jacobin Italia
La massima, attribuita a Voltaire e poi transitata fino alle galere dei militanti afroamericani negli anni Sessanta coi Fratelli di Soledad di George Jackson, dice più o meno che il grado di civiltà di una società si misura dalla condizione delle proprie celle. Questo numero di Jacobin Italia prende seriamente questa indicazione: ognuno degli articoli che lo compone traccia un filo tra la situazione dentro le prigioni e il mondo circostante. Indaga le carceri come spia della fase più generale, cercando di rompere l’isolamento concettuale e materiale che si respira oltre i muri di cinta. Qualche lettore distratto si stupirà di vedere associato il giacobinismo al rifiuto del giustizialismo. Ma ormai dovreste sapere che il giacobino nero che abbiamo sulla nostra testata non insegue tracce già solcate: si occupa di aprire prospettive inedite e inaspettate dalle pieghe della storia.
In apertura, Giuliano Santoro dipana il passaggio dalla disciplina al controllo per individuare nelle retoriche sulla «sicurezza» del governo Meloni quegli spazi ibridi in cui le antiche istituzioni totali e le nuove forme di assoggettamento si rafforzano a vicenda. Arriva però subito il primo colpo di scena. Perché, come spiega Vincenzo Scalia, se si considera il carcere come realtà storicamente determinata e se si parte dalle riflessioni dell’illuminista Cesare Beccaria, diventa conseguente prendere in seria considerazione la possibilità che questa istituzione possa essere abolita. Cosa che peraltro viene tranquillamente accettata ormai nel dibattito degli studiosi del tema.
Si muove su una prospettiva abolizionista anche la neo-europarlamentare e attivista Ilaria Salis, che il carcere l’ha conosciuto in Ungheria e che qui dialoga con Salvatore Cannavó. Mentre Francesca Vianello illustra, con dati sulla composizione sociale delle carceri ed esempi concreti, perché l’attuale sistema detentivo non funziona.
Ma l’ideologia del carcere ci viene instillata anche nelle narrazioni popolari, fin dalla detenzione per i più piccoli: Selene Pascarella fa una disamina di Mare fuori, la fiction di grande successo ambientata in un istituto penitenziario minorile. Anche se, spiega Sofia Ciuffoletti, fino a poco tempo fa la legislazione minorile italiana era un punto di riferimento per molti paesi. Quel modello si è incrinato sulla scia dei terribili fatti di cronaca di Caivano e sull’emergenza mediatica cavalcata dal governo Meloni.
Esistono alternative? Giusi Palomba ci conduce nelle esperienze radicali di «giustizia trasformativa». E Lorenzo Sciacca, intervistato da Carlotta Caciagli e Anna Cortimiglia, racconta l’idea e la pratica della «giustizia riparativa». E chi nel carcere ci lavora da volontario? Martina Lo Cascio ha messo attorno a un tavolo attivisti e operatori per ragionare sulle esperienze concrete dietro le sbarre. E Simona Baldanzi ha incontrato Monica Sarsini, che da anni anima laboratori di scrittura creativa nel carcere fiorentino di Sollicciano e che ci regala alcuni racconti scritti da detenuti e detenute.
Esistono inevitabilmente temi controversi, come il carcere duro per i mafiosi. Antonino Blando ne traccia la storia e cerca di coglierne il senso rispetto alle trasformazioni della politica e delle stesse mafie negli ultimi trent’anni. Emilio Caja indaga gli istituti di pena a partire dal sud e dalla Sicilia in particolare: ecco come le emergenze vengono spostate dalle mafie ad altri fenomeni sociali. E, sempre a proposito di emergenze, Francesca Esposito analizza il modo in cui la repressione dei migranti sta producendo esternalizzazione delle frontiere – come nel caso dell’accordo Italia-Albania – e privatizzazione della detenzione. Ci sono poi alcuni aspetti che peggiorano le condizioni di detenuti e detenute: la ridotta attuazione di permessi di lavoro veri e propri (se ne occupa Sara Manzoli), il mancato rispetto del diritto alla salute (ce ne parla Rita Cantalino), la caratterizzazione di genere dell’istituzione carceraria (tema dell’articolo di Riccardo Caldarera e Cirus Rinaldi) e la doppiamente aberrante condizione di restrizione cui sono sottoposte madri e figli (indagata da Katia Poneti).
Tutto il numero è illustrato dalle opere dell’artista e attivista curda Zhera Doğan, che mostrano la condizione di oppressione vissuta dall’autrice dietro le sbarre di un carcere turco. Qui non le veniva permesso di utilizzare alcuno strumento ma è riuscita a disegnare con quel che aveva a disposizione: i propri capelli, il sangue mestruale, il caffè, il tè o gli avanzi di cibo. Nell’inserto speciale di questo numero trovate tre tra le sue ultime opere, mai pubblicate finora, che rappresentano un grido di libertà non esaudito nemmeno dalla scarcerazione.
La parte della rivista dedicata alle traduzioni del numero di Jacobin Magazine che esce in contemporanea a noi negli Usa, non poteva che occuparsi dell’esito delle recenti elezioni presidenziali. È pensata come una «Guida» agli Stati uniti del nuovo trumpismo perché questo nuovo mandato del tycoon, in combutta con l’anima oscura della Silicon Valley, presenta elementi inediti. E allora Doug Henwood traccia il profilo delle linee programmatiche della politica economica della nuova amministrazione. L’analista David Austin Wash, autore di un importante saggio sulle nuove destre americane, spiega che i trumpisti hanno ereditato i tratti reazionari del conservatorismo delle stagioni precedenti ma ignorano del tutto, a differenza dei predecessori, le basi del liberalismo e del contratto sociale. Per Tristan Hughes, tuttavia, questo profilo deriva dagli anni Novanta del secolo scorso, quando cioè le élite repubblicane in crisi lasciarono spazio a idee considerate marginali anche da quelle parti. Segue un piccolo vocabolario dell’era Trump, per orientarsi nei concetti che sono stati usati per colonizzare l’immaginario sociale. Ma che ne è della famigerata identity politics, che molti opinionisti un po’ superficiali hanno considerato fattore responsabile della sconfitta di Kamala Harris? Liza Featherstone dimostra che dalle parti dei Democratici è ampiamente tramontata, al contrario è stata utilizzata ampiamente da Trump in chiave ultraoscurantista. E come ha votato la working class, che negli anni scorsi ha dato vita a un ciclo di lotte? Risponde Dustin Guastella, attivista sindacale. Infine, Anton Jäger si lancia in una disamina dell’opera dello scrittore francese Michel Houellebecq. Viene, e non a torto, considerato un ispiratore del pensiero reazionario, ma secondo Jäger rappresenta un obiettivo puntato sull’abisso in cui rischiamo seriamente di precipitare.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.