
Il mito di Stonewall
Il riot lungo cinque notti da cui nacquero i movimenti Lgbt compie 50 anni. La consapevolezza di maneggiare una narrazione, assieme alla connessione con il linguaggio delle lotte dei neri e del marxismo rese quell'evento fondativo
Tutti sanno che il 25 dicembre non è la vera data della nascita di Gesù Cristo. Il giorno del Natale era un culto pagano sussunto dal cristianesimo. Ma questa festa è indice dell’importanza di avere un mito fondativo, della necessità di produrre un prima e un dopo, per passare dalla storia alla Storia. Quella nascita è celebrata in tutto il mondo ogni anno come un mito collettivo che affonda le radici nel mistero ma che ha saputo cambiare la storia segnando un prima e un dopo universale. E la sua potenza ha resistito anche al capitalismo che l’ha inglobato in parte ma non del tutto. Un mito che ha rielaborato miti precedenti, fagocitati, per generare qualcosa di completamente nuovo.
I moti di Stonewall, di cui ricorrono oggi i 50 anni, sono tipicamente un mito fondativo. È universalmente riconosciuto che quegli scontri siano l’origine dei pride di tutto il mondo.
Cominciarono nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969 per proseguire per 5 notti non consecutive. Si innescarono quando la polizia fece irruzione allo Stonewall Inn di New York in un’ora più tarda del solito, intorno all’1.20 di notte. I locali gay erano spesso presi di mira da parte della polizia, ma quelli gestiti dalla malavita – come lo stesso Stonewall – pagavano un pizzo affinché queste incursioni avvenissero in prima serata, in modo da poter proseguire tranquillamente la propria attività notturna. Anche l’alcol veniva conservato su un’automobile davanti al locale, in modo che il sequestro non comportasse troppi danni economici.
Quella notte però andò diversamente: quando la Buoncostume fece irruzione trovò poco più di duecento persone che vennero divise tra chi era minorenne, non aveva documenti o aveva vestiti del genere diverso dal sesso biologico. Gli altri li fecero uscire.
Le persone travestite furono accompagnate al bagno per gli accertamenti. Alcuni si rifiutarono di mostrare i documenti compiendo il primo gesto di resistenza. Fra queste persone Stormé DeLarverie, lesbica butch (maschiaccio) che contribuì in modo determinante a quelle notti.
Le persone cominciarono ad accalcarsi su Christopher street, la strada dello Stonewall inn. Arrivarono le camionette della polizia per portare via gli arrestati. La folla aumentò rapidamente e cominciò a insultare la polizia. Fra di loro c’erano anche Marsha Johnson e Sylvia Rivera. Se siano state davvero loro a dare inizio alla rivolta non lo sappiamo, ci sono versioni contrastanti su questo. Sicuramente presero parte al riot e lanciarono, secondo il mito, un tacco a spillo dando inizio alla danze (più probabilmente era una bottiglia di gin).
Il tacco a spillo aprì un varco, seguirono i mattoni di un rudere lì vicino. Le camionette furono prese d’assalto e gli scontri furono molto duri. Le cariche della polizia non facevano che attirare l’attenzione della folla che aumentava e intensificava gli scontri. La polizia in tenuta antisommossa dovette fermarsi quando venne una macchina venne ribaltata dalla folla in mezzo alla strada. Gli scontri si placarono solo alle 4 di notte, concludendosi con 12 arresti, (solo) 4 agenti feriti e qualche manifestante all’ospedale.
La sera successiva lo Stonewall era di nuovo aperto. Migliaia di persone si accalcavano davanti al locale, la polizia tornò e gli scontri ripresero ancora. E così avvenne la notte successiva. Articoli di giornale con parole offensive come frocio convinsero i manifestanti a tornare in piazza e a dare vita a scontri anche nelle notti del 3 e del 4 luglio.
La creazione del mito
Stonewall non fu né la più grande né la prima sommossa in un locale gay. Ma cosa ha reso la rivolta dello Stonewall Inn l’inizio del movimento Lgbt moderno? Il movimento stesso. Compiendo una serie di gesti politici determinanti. La memoria dell’evento, l’incontro con il marxismo e la lotta dei neri, la nascita di nuove organizzazioni.
Il 12 novembre dello stesso anno il movimento omofilo organizzò una manifestazione commemorativa di quegli scontri. A Chicago l’anno successivo, il 27 giugno 1970, si tenne per la prima volta un Gay pride in commemorazione dei moti di Stonewall.
La capacità di un movimento di produrre memoria di ciò che compie è un elemento determinante per sedimentare una storia. Ne dimostra la maturità.
Nel caso specifico non si trattò semplicemente di tramandare memoria: fu un vero e proprio atto politico. La funzione dei miti in Grecia era quella di spiegare fenomeni complessi a cui non si sapeva dare una spiegazione, renderli semplici, comprensibili e memorizzabili. E tramandare eventi della storia di un popolo, con protagonisti inventati o meno.
È il caso del celeberrimo tacco a spillo di Sylvia Rivera e Marsha Johnson. Da fonti diverse abbiamo notizia che probabilmente nessuna delle due leader fu presente all’inizio della rivolta ma arrivarono un’ora dopo. Fu dunque tutto inventato? No. Perché il mito non inventa. Il mito crea. La scelta di produrre una versione, un punto di vista, e di crearla favolosa, black, ribelle, è stato parte della genesi. Uno storico può eccepire sulla presenza o meno di quel tacco. Io, da attivista, ci credo. E lo celebro, come tributo alla libertà a cui ho avuto accesso
Gay Power!
L’altro elemento prodotto da Stonewall è la fusione delle pratiche per produrre una nuova cultura politica. Rivendicando Stonewall, la comunità Lgbt trasformò un tafferuglio in una rivolta. Appare chiaro quanto questo processo fu il frutto del ‘68, del movimento contro la guerra nel Vietnam, della cultura marxista e della lotta black.
Lo slogan «gay power» si rifaceva al «Black power» e a quei pugni alzati alle Olimpiadi del Messico.

Il concetto di orgoglio è mutuato dalle lotte dei neri e anche il modello del gesto fondativo di Rosa Parks nel 1955 (in cui si rifiutò di cedere il posto su un autobus a un bianco e per questo venne arrestata) è un’analogia con il gesto (collettivo) della rivolta di Stonewall. L’immagine del tacco a spillo di Sylvia Rivera non fu altro che ricercare nel nascente movimento Lgbt un frame del movimento nero. Questa fusione, avvenne su base puramente teorica ma nacque da un corpus di pratiche e strumenti di lotta di altri movimenti. La fusione della cultura marxista libertaria con la comunità Lgbt non è un fenomeno soltanto degli Stati uniti. Il Gay Liberation Front sbarcò nel vecchio continente a Londra, dove nell’ottobre del 1970 si tenne la prima riunione che presto fu in grado di agire nel territorio. La prima grande azione che organizzò fu il blocco dell’inaugurazione del «festival della luce», un convengo conservatore e omofobo, nel 1971.
L’interruzione di un convegno e la cultura marxista fa pensare all’Italia. Come non riferirsi a Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli, testo davvero fondamentale e di chiarissimo stampo marxista e ecologista, o alla contestazione di Sanremo il 5 aprile 1972, contro il «Congresso internazionale sulle devianze sessuali» organizzato dal Centro italiano di sessuologia di matrice cattolico-integralista?
Nuove organizzazioni
Queste nuove culture politiche permearono il movimento, lo trasformarono, facendo eclissare il movimento «omofilo» presente a New York con la «Mattachine society» giudicato integrazionista e moderato. Il Gay Liberation Front, di ispirazione dichiaratamente marxista, fu culturalmente in grado di rivendicare gli scontri con la polizia e il conflitto come propria pratica politica.
Anche la scelta di inserire il termine «gay» fu una scelta non banale. Il movimento omofilo fino ad allora trovava in questo termine un elemento sessuale e dunque sconveniente al fine di farsi accettare dalla società. Purtroppo il Gay Liberation Front durò poco più di sei mesi: il 21 dicembre del 1969 ci fu la scissione della Gay Activist Alliance intenzionata a lavorare con le istituzioni e a essere un movimento meramente Lgbt e non trasversale a tutti i movimenti di liberazione come lo era stato per il Glf.
Il Glf si sciolse nel 1973 ma fino ad allora coniugò la battaglia Lgbt con la lotta antirazzista, sostenendo direttamente il Black Panther Party, sostennero una posizione radicalmente anticapitalista e contro la famiglia «naturale» e mononucleare. Diverse donne Glf, come Martha Shelley, Lois Hart e Michela Griffo hanno continuato a lottare nella Lavender Menace, un’organizzazione di attiviste lesbiche.
Nel 1970, il drag queen caucus del Glf, tra cui Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera, costituì il gruppo Street Transvestite Action Revolutionaries (Star), che si occupava di fornire supporto ai prigionieri gay, alloggi per i giovani senzatetto e gente di strada, in particolare altre giovani «regine di strada».
Il movimento Lgbt però non è stato solo un movimento rivoluzionario ma anche riformista e moderato. E queste due anime, a fasi alterne, hanno avuto protagonismo sulla scena mondiale.
Stonewall per i moderati era un mito scomodo. Ribelle, sovversivo, sia nelle pratiche che nelle figure di spicco di Marsha Johnson e Sylvia Rivera, trans immigrate, nere, prostitute.
La parte moderata provò a produrre attraverso testi e cinematografia anche miti alternativi o, per essere politically correct, complementari come quello di Harvey Milk, attivista Lgbt di San Francisco che divenne il primo gay dichiarato a entrare nelle istituzioni e a cui Hollywood ha dedicato un film magistrale con Sean Penn come protagonista. Lui: bianco, maschio, istituzionale era ovviamente una figura più rassicurante di Marsha Johnson o di Sylvia Rivera.
Stonewall è un baricentro
Questo processo «integrazionista» è incarnato da una parte, spesso maggioritaria, del movimento, in cui si ravvede l’integrazione e la compatibilità dell’omosessualità in un impianto sostanzialmente eteronormativo. Il modello della famiglia tradizionale replicato nel più banale degli stereotipi, semplicemente con due mamme o due papà.
Non si può dire che la caduta dell’esclusività eterosessuale dell’accesso al matrimonio non sia di per sé una trasformazione del modello di famiglia. La famiglia tradizionale con due papà o due mamme, non è la famiglia tradizionale e prova ne sono gli strali della destra cristiana nel mondo. Ma è bene sottolineare che questo approccio è solo uno dei possibili e a volte nemmeno il più efficace e spesso, è doveroso ricordarlo, riproduce gli elementi di esclusione per chi non si conforma al modello. I single, le coppie senza figli, le persone non binarie, le comunità informali di persone, sono coloro che non ce l’hanno fatta a realizzare il sogno della famiglia tradizionale.
Il movimento Lgbt ha sempre avuto queste due anime, moderata e rivoluzionaria, ma di certo i moti di Stonewall, che ne hanno provocato uno slancio senza pari (tanto da essere ancora celebrati con i pride di tutto il mondo), stabiliscono un baricentro. Un perno senza il quale viene giù tutta la storia e l’impianto teorico di fondo.
Alla luce di questo possiamo affermare non solo che il movimento Lgbt non nacque dal nulla come una monade, ma che il suo dna è strutturalmente egualitario e libertario, ed entrambe le anime del movimento declinano questi due concetti.
Su questi due binari: uguaglianza e libertà, moderati e rivoluzionari, la lettura più lucida l’ha formulata Porpora Marcasciano, attivista trans di spicco del movimento italiano. Secondo Porpora il movimento Lgbt nacque libertario dal 1970 al 1984, quando arrivò l’epidemia dell’Hiv che lo bloccò, sterminando una generazione, fino alla seconda metà degli anni Novanta quando le terapie antiretrovirali permisero di tenere sotto controllo il virus e l’epidemia. Il movimento rinacque (del 1994 il primo pride italiano, a Roma) ma avendo interiorizzato il senso di colpa per la libertà sessuale «punita» con l’epidemia, rivendicò l’uguaglianza e non più la libertà. Rivendicò diritti da far riconoscere allo stato. Elemento da tenere in considerazione è anche che i partiti postcomunisti e socialdemocratici aprirono proprio in quegli anni alle rivendicazioni della comunità Lgbt che avevano ignorato, se non osteggiato, per anni.
Se l’uguaglianza e la libertà sono i perni dove sono i confini? La presenza di omosessuali può prescindere dalla classe, razza o credo politico (nonché religioso) ma il movimento che intende liberarli è strutturalmente egualitario e se ne deduce di conseguenza che fenomeni come il pinkwashing o organizzazioni Lgbt di destra non sono una variante del movimento, ne sono un corpo estraneo. Se il movimento Lgbt agisce contro la libertà di altri oppressi come i neri o i musulmani semplicemente tradisce se stesso. Non esiste dunque un confine tracciato ma evidentemente organizzazioni dichiaratamente di destra tradiscono così tanto i valori fondativi da porsi loro stesse fuori dal ragionevole perimetro del movimento.
Se si guarda al presente e al futuro, Stonewall ancora genera e crea, basti pensare a tutte le ricerche intersezionali che l’ala più libertaria del movimento sta portando avanti: donne, neri, migranti, lavoratori, disabili. Sono ancora laboratori fecondi, che tengono accesa la stessa scintilla della rivolta che accese cinquant’anni fa il movimento Lgbt e come la fucina di Efesto forgia nuove vie per il movimento.
*Filippo Riniolo è artista visivo e attivista al circolo Sparwaasser e nell’Arci.
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