La politica della paura. La paura della politica
Questo numero di Jacobin Italia fa i conti con la paura come sentimento prevalente della nostra epoca, ne identifica la natura opprimente e al tempo stesso ne riconosce quella sociale
«È la paura che tu hai, o Sancho, che ti fa vedere e capire ogni cosa di traverso» dice Don Chisciotte di fronte alle perplessità del suo scudiero prima di lanciarsi in mezzo a due mandrie di montoni scambiate per eserciti. Questo numero di Jacobin Italia fa i conti con la paura come sentimento prevalente della nostra epoca, ne identifica la natura opprimente e al tempo stesso ne riconosce quella sociale. Che la paura sia un’emozione sociale emerge dalla storia di S. M., donna affetta da una rara anomalia che le impedisce di spaventarsi. La raccontano a fumetti Assia Petricelli e Sergio Riccardi nell’inserto.
Studiando le politiche della sicurezza il sociologo Loïc Wacquant afferma: «La paura di un nemico illusorio è l’unica cosa rimasta in mano ai politici per garantire il loro potere». Solo in questo modo, dice ancora, «la mano invisibile del mercato si trasforma nel pugno di ferro dello Stato penale». Donatella Di Cesare spiega in apertura cos’è la politica della paura di cui Matteo Salvini in Italia è solo il caso più evidente: corrisponde alla gestione della vita senza spazi pubblici, fa il paio con uno Stato che si riduce a mezzo per mantenere la sicurezza e l’ordine invece che redistribuire le ricchezze. L’incubo di chi comanda, quello di un alto livello di cooperazione sociale che sfugga alle maglie dello sfruttamento, spesso si materializza nella vita in comune delle città: per controllarle e valorizzarle esiste una paura specifica, che Giuliano Santoro definisce «urbanofobia».
Francesca Coin dimostra come alla gestione autoritaria della crisi e dell’austerity si sia accompagnata la costruzione dei poveri come capri espiatori. Si pensi al caso della paura che il migrante influisca negativamente sulle condizoni di lavoro, che il sociologo Guglielmo Meardi decostruisce e che – come si vede dalle nostre infografiche – si rivela correlata al livello di protezione sociale dei diversi paesi europei. A questo proposito, Imogen Tyler racconta di come il welfare possa diventare strumento di controllo e colpevolizzazione.
La salute e il benessere sono stati rimpiazzati dalla minaccia di un nemico interno, una quinta colonna invisibile quanto pericolosa, che ha bisogno di nutrirsi di un’angoscia generalizzata, del panico più che di una paura definita e localizzabile. Selene Pascarella decostruisce il linguaggio della cronaca nera, e degli allarmi che montano attorno a essa, per tracciare la differenza tra una sana paura e un’ansia fuori controllo.
Gaia Giuliani indaga la paura degli sbarchi in relazione al passato rimosso di colonizzazione e schiavitù. Analizziamo l’odio per i soggetti ai margini, che spesso diventa omofobia o paura delle persone nere o rom, chiedendo a chi indossa questo stigma di far emergere le proprie angosce di cui sicuramente non troverete traccia nei talk-show che diffondono fobie a buon mercato: Valentina Sejdic fa un ritratto delle paure di una giovane donna rom, Elaija Emanuela Osei descrive la vita di due donne afroitaliane dopo l’attentato razzista di Luca Traini a Macerata, Renato Busarello indaga da una prospettiva queer le paure sessuali dei maschi.
Giovanni Bettini utilizza alcuni romanzi distopici per ragionare attorno al fatto che con la crisi climatica l’apocalisse è ormai diventata una prospettiva concreta. A proposito di narrazioni: delle paure futuribili (e fantascientifiche) si occupa Daniele Barbieri. Analizziamo poi tre casi in cui psicosi e paure irrazionali tornano utili a descrivere un clima sociale: le false insurrezioni nella Gran Bretagna degli anni Venti del Novecento, l’allarme satanismo a Bologna alla fine dello scorso millennio e la paura del contagio che oggi rivive con il Coronavirus.
Serge Quadruppani, scrittore francese, dialoga con Riccardo Antoniucci e ripercorre il caso della Francia degli ultimi anni: dalla proclamazione dello «stato di emergenza» seguito agli attentati dell’Isis al tentativo di criminalizzare i movimenti utilizzando proprio la paura. Operazione in gran parte fallita: Quadruppani spiega in che modo le lotte abbiano cambiato di segno alla paura. Del timore di ribellarsi e della solidarietà collettiva come antidoto parlano da diverse prospettive prima Dario Firenze e Marie Moïse e poi Lorenzo Zamponi.
La natura di classe della paura emerge almeno fin dall’età moderna. Montaigne attribuiva alla gente di modesta condizione la propensione al timore: vedevano corazzieri dove c’era solo un gregge di pecore, scambiavano semplici canneti per una torma di lancieri. Associando viltà e crudeltà, il filosofo assicura che l’una e l’altra appartengono alla «canaglia del volgo». Del resto, molti secoli prima, Virgilio aveva scritto nell’Eneide: «La paura è prova di bassi natali». Ma c’è un caso storico in cui è diventata una spinta al cambiamento: ne scrive Luca Addante a proposito delle psicosi che accompagnarono la Rivoluzione francese. Gaia Benzi aggiunge che anche quando la peste e le carestie erano minacce concrete, il popolo trovava il modo di sfuggire al terrore. Ma dobbiamo riconoscere le «ragioni del coniglio», ci dice Daniele Giglioli, a partire da noi – dalla nostra parte politica – diventando capaci di avere paura dei nostri stessi errori. «Perché solo chi ha ragione di aver paura prima o poi si mette a ragionare».
Dall’altra parte dell’Oceano c’è qualcuno che invece ha paura della «political revolution» di Bernie Sanders. Di questo si occupa il numero 36 di Jacobin Magazine che esce contemporaneamente a noi negli Usa, di cui qui trovate una selezione di articoli. Il politologo Thomas Ferguson in un dialogo con Paul Heideman analizza il ruolo attivo dei miliardari nelle campagne elettorali statunitensi. Nathalie Shure affronta le reazioni delle corporation sanitarie di fronte al Medicare for all, la proposta di protezione sanitaria universale del senatore del Vermont. Michael Walker segnala i limiti della campagna elettorale di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna che Sanders deve evitare, mentre Vivek Chibber si confronta con la produzione teorica del sociologo Erik Olin Wright – recentemente scomparso – per pensare al modo in cui la «political revolution» possa provare davvero a lasciarsi alle spalle il capitalismo. È una lotta che passa anche dalla costruzione di un nuovo immaginario, ed Eileen Jones approfondisce cos’è stato il cinema rivoluzionario del Novecento per guardare i cineasti che provano a costruire oggi diverse narrazioni.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.