Le piazze di marzo
Il susseguirsi di mobilitazioni ha cambiato uno scenario fino a poche settimane fa popolato solo dal Centauro giallo-verde e da una opposizione compromessa. La sfida ora è imparare a cimentarsi con la politicità dei movimenti
Le piazze di marzo cambiano, sia pure lentamente, l’immaginario politico. Se prima lo scenario davanti ai nostri occhi sembrava popolato solo dal Centauro giallo-verde al governo, con una opposizione invertebrata e soprattutto compromessa, come il Pd, oggi il quadro si fa tridimensionale e vede apparire, in basso, come un’immagine che sale sul proscenio, la piazza di movimenti. Movimenti diversi tra loro, a volte confliggenti, come è successo tra la Cgil e Non una di meno a proposito dello sciopero sociale dell’8 marzo. Ma i segnali sono davanti a tutti.
Ha cominciato proprio la Cgil, insieme a Cisl e Uil, il 9 febbraio, con una piazza del lavoro che non si palesava dal 2014, dallo sciopero contro il Jobs Act del governo Renzi. Una piazza mobilitata e motivata anche dalla novità rappresentata dall’elezione di Maurizio Landini alla guida della Cgil e da questi resa immediatamente “politica”, come abbiamo già evidenziato su Jacobin Italia, in grado, cioè, di connettere rivendicazioni sociali ed economiche a una critica generale al governo soprattutto sul versante dell’immigrazione.
Il tema dei migranti, la nettezza con cui il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, appoggiato dall’alleato di governo, gestisce il dossier, non ha mancato di provocare una reazione soprattutto emotiva e, come altre volte è accaduto nella storia dei movimenti, etica. Un sussulto di civiltà, che gli avversari bollano con l’epiteto di “buonista” e che si è espresso nella grande manifestazione di Milano del 2 marzo. Corteo solo in parte di movimento perché rappresentato e trainato da esponenti istituzionali, come il sindaco di Milano, e politici, come il Partito democratico. Ma quella manifestazione è stata anche l’occasione per rappresentare le posizioni più radicali, le istanze per la piena cittadinanza ai migranti e non solo quelle che propongono la buona accoglienza.
Una settimana dopo si è avuto un nuovo scossone con lo sciopero sociale dell’8 marzo indetto da Non una di meno, spalleggiato dai sindacati di base, non dalla Cgil o dalla Fiom, e che ha visto manifestazioni rilevanti e partecipate un po’ ovunque. In particolare si è vista la presenza di giovani donne, studenti, che hanno qualificato la presenza di piazza e reso visibile una domanda di partecipazione che è tutta ancora da esplorare.
Ancora una settimana e sulla scia dell’iconica Greta Thunberg, la ragazzina svedese che da agosto 2018, ogni venerdì manifesta davanti alla propria scuola per il clima, decine di migliaia di giovanissimi sono scesi in strada a rivendicare il diritto al futuro e il diritto al pianeta. La povera Greta è stata subissata di insulti e critiche da ogni parte, al di là dell’effettivo ruolo che può giocare una ragazza di 16 anni, a dimostrazione però che appena si increspano le acque della pacificazione sociale i cani da guardia dello status quo si mettono ad abbaiare.
In una progressione inaspettata per un “paese senza sinistra”, la piazza torna a riempirsi anche il 23 marzo, a Roma, per la manifestazione “per il clima e contro le grandi opere inutili”, un mosaico di voci dei comitati ambientalisti e contro la devastazione del territorio che occupano la scena da anni, che da tempo manifestano e che, questa volta, hanno arricchito la mobilitazione anche con le istanze di chi, deluso dalle promesse del M5S al governo – a partire dalla questione Tav – ha dato alla manifestazione una chiara impronta antigovernativa (come sempre, del resto, in tema di opere inutili).
Infine Verona, il 30 marzo, una manifestazione femminista e non solo contro una politica oscurantista e di feroce attacco alle condizioni di vita delle donne, contro la libertà di orientamento sessuale, per una società familista e violenta nonostante le melense e stucchevoli parole di grande umanità pronunciate dal palco.
L’elenco potrebbe continuare con manifestazioni locali o su tematiche meno generali per quanto importanti, come la manifestazione contro le mafie a Padova o quella, a Firenze, per ricordare il compagno italiano, Lorenzo Orsetti ucciso dall’Isis mentre combatteva a fianco dei curdi e altre del mondo del lavoro per rivendicare diritti, contratti. Manifestazioni riuscite e inattese si erano del resto prodotte anche lo scorso autunno, eccedendo le capacità degli organizzatori.
La quantità, la qualità, la radicalità di partecipazione e contenuti, la pluralità della composizione sostanziano l’importanza politica del fenomeno e invitano a guardare con occhi attenti.
Perché, come abbiamo già segnalato, c’è alla base un “sottostante” delle mobilitazioni che è dato dall’elemento etico. Di fronte al “cattivismo” ostentato da Salvini e accettato dai 5Stelle, c’è una forte volontà di affermare un elemento basilare di convivenza civile, di umanità dei comportamenti. Questo appare chiaro nelle mobilitazioni sul tema dei migranti, come quella di Milano del 2 marzo. Anche nella solidarietà generale che si è manifestata attorno all’azione della nave Mediterranea, si respira il gradimento per azioni, siano esse anche solo sul piano simbolico e prefigurativo, che diano voce a un’altra dimensione della politica e dell’agire civile. La destra attacca da sempre questo atteggiamento con l’epiteto di “buonista” confondendo in un’unica salsa l’approccio elitario e contraddittorio della sinistra di governo e delle figure intellettuali di contorno che un giorno fanno l’accordo con il “governo” libico per rafforzare i lager di contenimento dell’immigrazione subsahariana, il giorno successivo sostengono la politica europea di chiusura delle frontiere e il giorno dopo si indignano per le morti in mare. Eppure esiste un’etica nella mobilitazione che attorno alla richiesta di un’accoglienza più dignitosa e di un trattamento umano e al riconoscimento di una cittadinanza universale – rivendicazione minoritaria – cerca di difendere un’idea di società basata sui valori della solidarietà e della convivenza. Un’idea politica che viene esibita e che induce a manifestare contro un governo che della distruzione di quell’idea fa un vanto.
Nel caso delle manifestazioni femministe la dimensione politica è più marcata, frutto di una dinamica di movimento che ormai dura da anni e di un protagonismo delle donne che non sembra più reversibile, soprattutto se guardiamo la voglia di esserci delle più giovani. Ma se la manifestazione dell’8 marzo esprime una politicità femminista a tutto tondo, che si raccoglie nelle parole d’ordine del movimento pur ampliandosi ad altre forze, quella del 30 marzo è una manifestazione ancora più generale. Qui il contraltare è direttamente il governo, la politica di sostegno ai disegni più aberranti contro il corpo delle donne e alle concezioni più regressive in termini di convivenza civile e tra i generi. La libertà sessuale diventa essa stessa una concezione politica che fa muro contro il tentativo – goffo senz’altro ma perseguito con determinazione – dell’anima più reazionaria e regressiva del sovranismo di governo di saldarsi con settori dell’ultradestra cattolica e del conservatorismo omofobo e misogino ancora ben incistato nella società italiana.
Spinta etica e valoriale anche nelle piazze giovani del Friday for future in cui, come spesso accade nell’informazione e nel dibattito pubblico italiani, ci si sofferma sul dito invece che sulla luna. Una settimana abbondante a contrapporre il “messianesimo” caricato da giornali liberal sulle esili spalle di Greta Thunberg che, al contrario, viene additata dal sovranismo paranoico come punta di lancia della finanza globalizzata. E invece in quelle piazze, a guardarle da vicino, si vede di nuovo la sana e tradizionale voglia giovanile di prendere parola e di prenderla su un tema apparentemente etico ma di grande portata politica e sistemica (niente è forse più anticapitalista, oggi, della critica ecologica).
Più politica e più solida, invece, la spinta che ha animato la piazza del 23 marzo, quella dei Comitati territoriali spesso esistenti da decenni e animati da attivisti sociali sperimentati: no Tav, No Grandinavi, Acqua pubblica, etc. Anche qui, però si è notata una diffusa partecipazione “autodeterminata”, svincolata, cioè, dall’appartenenza o dal riconoscersi in strutture organizzate fossero solo associazioni o comitati ambientalisti. Anche qui una spinta individuale a una presenza politica generale, dettata esattamente come per i più giovani, dalla voglia di prendere parola, di manifestarsi nonostante, anzi forse proprio a causa dell’assenza di soggettività più compiute e robuste, di opposizioni più strutturate.
Ancora una volta i movimenti sociali, quando non sono confinati a singole issues e a mere rivendicazioni economiche, esprimono una politicità che, tra l’altro, si contrappone alla crisi della politica istituzionale – come dimostra la crescita costante dell’astensione elettorale – e conquistano sul campo una valenza politica generale, soprattutto se si immettono in una polarizzazione come quella che il governo attuale, e in particolare il suo vicepremier Salvini, cerca continuamente.
La polarizzazione è un fattore trainante dell’agire politico, determina schieramenti e produce azioni e reazioni. Questa dinamica si è avuta, in forme non troppo dissimili, più di dieci anni fa quando governava placidamente il centrodestra a guida Berlusconi, poi entrato in crisi. E una forma analoga si è avuta anche con l’ultimo governo Berlusconi quando il movimento per l’Acqua pubblica produsse l’iniziativa più politica mai realizzata da un movimento sociale dopo gli anni Ottanta, un referendum, vinto, sulla natura pubblica di quel bene comune. Anche in quei casi il fattore governativo, unito alla materialità di bisogni sociali, costituì una spinta alla solidità e rotondità del movimento. Che, nel caso del 2011, vide il proprio potenziale politico travolto dalle fiamme degli scontri di piazza del 15 ottobre di quell’anno, mentre per quanto accadde tra il 2001 e il 2006, la forza dei movimenti “no global” e “girotondi” fu assorbita dalla pretesa delle forze politiche del centrosinistra di rappresentarne le istanze. Così non fu, ma, come una pezza sgonfia, quei movimenti non si ripresero dall’illusione.
Per queste ragioni, la riattivazione in corso potrebbe avere l’effetto paradossale di sostenere la parziale ripresa del Pd operata con affanno dal neo segretario Nicola Zingaretti. Anche perché in alcuni settori si è già utilizzato, per provare ad agire in questa fase, lo strumento delle primarie, che ha potuto attirare energie attorno alla costante machiavelliana che «gli uomini mutano volentieri signore, credendo migliorare».
Se l’esito di andare a rafforzare i risultati del Pd zingarettiano non ci esalta, nemmeno, per compensazione, potremmo riconoscerci in una posizione che invitasse a formare, «subito, il più rapidamente possibile» una raffazzonata forza politica “di sinistra” che interpreti queste istanze. E non perché di una forza politica di tali connotati non ci sarebbe bisogno. Ma perché non è questo il nodo della questione.
Il punto è che bisogna imparare a cimentarsi con la politicità, sempre più spiccata, dei movimenti, con la loro capacità di essere direttamente soggettività in grado di esprimere “l’arte strategica” della politica. A condizioni che ne assumano il peso e ne costruiscano le condizioni e gli strumenti. Non ci metteremo certo a dettare linee di comportamento: del resto, per una buona strategia politica, gli ingredienti sono noti: rafforzare la partecipazione e quindi la democraticità, definire gli obiettivi e renderli comprensibili, non accontentarsi di palliativi ma scommettere sulla radicalità, costruire solide alleanze anzi, meglio, intersezioni.
Se le piazze di marzo avranno riempito la politica italiana di nuovi colori e, oltre a prefigurare, si prenderanno diritti e spazi avremo fatto tutti un passo in avanti.
Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018).
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