La classe per noi
Chi sono, come vivono, lavorano e si organizzano le lavoratrici e i lavoratori dell’epoca contemporanea. Indagine a più voci sull'idra dalle molte teste
Dopo aver analizzato nel n. 11 la classe dominante, abbiamo scelto di affrontare un tema decisivo. Forse il tema: chi sono, come vivono, lavorano e si organizzano le lavoratrici e i lavoratori dell’epoca contemporanea. Lo avevamo fatto in forma appena meno esplicita nei dodici numeri dei primi tre anni di Jacobin Italia, parlando (tra le altre cose) della scomparsa della sinistra in questo paese, delle caratteristiche della crisi pandemica, delle nuove forme di sciopero o della questione urbana.
Con il contributo di una selezione di articoli sullo stesso tema tradotti dal n. 42 di Jacobin magazine e dal n. 4 di Jacobin America Latina, questa volta abbiamo voluto iniziare a rapportarci direttamente con la composizione plurale e multiforme della working class, cercando anche un immaginario e una visione contemporanea e personale del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, attraverso gli occhi e l’esperienza delle undici illustratrici e illustratori di questo numero, che hanno rivisto e reinterpretato un’opera icona di una collettività che avanza unita.
Come spiega in apertura Francesca Coin, per riconoscere la complessità di quella che Marx chiamava «la classe per sé», in quanto alleanza tra sfruttate e sfruttati, bisogna individuare le forme di inclusione differenziale e le gerarchie che razzismo e patriarcato hanno seminato nel corso dei secoli e dei quali il capitalismo oggi approfitta per dividere, segregare, distrarre. È quello che Veronica Gago, in chiusura, individua come idra rivoluzionaria dalle molte teste. In fondo, come afferma da una prospettiva diversa David Broder, la classe operaia non si è mai esaurita nel soggetto maschio bianco che lavora in una fabbrica fordista. Scorrendo il tempo non lineare dello sviluppo, dunque, oggi ci troviamo di fronte a forme nuove e al tempo stesso antiche di sfruttamento schiavistico. Françoise Vergès, a colloquio con Francesca De Rosa e Marie Moïse, dipana il rapporto storico tra razzismo, colonialismo, violenza di genere e sfruttamento. Sono quelli che descrive anche Martina Lo Cascio parlando dei ghetti del lavoro agricolo migrante e delle lotte che sono nate dove le forme di dominio eccedono la forma del salario e abbracciano tutta l’esistenza. E in un contesto differente risuonano nelle vite solitarie e affollate che racconta Freddie Stuart gettandoci nel ventre della bestia di un magazzino della logistica di Amazon. O nel sottile asservimento del lavoro cognitivo, alla faccia della retorica sulla creative class, che analizza Gaia Benzi. Oppure, ancora, nelle nuove gerarchie della fabbrica 4.0 e del lavoro digitale di cui si occupa Angelo Moro. Fino a un dispositivo subdolo e spietato, che si incunea nell’esistenza quotidiana per disciplinarla, come la spinta all’indebitamento che conduce alla finanziarizzazione della vita, che spiega Marco Bertorello.
Le caratteristiche di cui parliamo sono state individuate da tempo dal pensiero femminista. Per questo, Eloisa Betti e Sabrina Marchetti ripercorrono la storia dell’organizzazione delle lotte sul lavoro delle donne mettendo in evidenza il filo rosso del lavoro di cura e del rapporto tra produzione e riproduzione, arrivando fino agli scioperi globali dei giorni nostri. Preso atto che la produzione impera su tutte le relazioni sociali, Salvatore Cannavò prova ad allargare il concetto di alienazione al sistema capitalistico nel suo complesso. Il lavoro, sostiene Lorenzo Zamponi, ha smesso di essere la gabbia da cui liberarsi e la condizione che consente la liberazione: è diventato come nell’Ottocento un dovere sociale. Da qui lo stigma per i più poveri, che Simone Fana individua nella campagna di denigrazione contro il Reddito di cittadinanza, che in fondo serve a rendere ancora più ricattabili i lavoratori a basso costo.
Per reagire a questa condizione Gianni De Giglio propone alleanze trasversali che conducano alla nascita di forme di «sindacalismo a insediamento multiplo», a cavallo delle categorie e dei soggetti sociali. È quello che sono riusciti a fare, tra gli altri, gli operai e le operaie della Gkn, aprendo le porte della fabbrica a tutti e tutte quelle colpite dalla crisi. Quella vertenza, diventata ormai emblematica, la racconta in forma poetica Alberto Prunetti. Che poi dà vita a un dialogo con un altro scrittore working class, l’argentino Kike Ferrari. A proposito di racconti: Simona Baldanzi immagina uno sciopero delle macchine contro gli infortuni sul lavoro. E Amir Issaa e Wissal Houbabi nell’inserto di questo numero danno vita a un duetto in versi rap su classe, razza e genere.
Si diceva di alleanze trasversali: Paul Heideman prende il caso del professionista per eccellenza, il dentista, per ragionare sul rapporto tra classe lavoratrice e ceto medio. In fondo, come racconta Eileen Jones, persino dalle commedie a tema sportivo degli anni Settanta negli Usa emerge un afflato di classe. Infine, un piccolo dizionario per risignificare le parole-chiave della lotta di classe a cura di Giulio Calella. E alcuni dei risultati del sondaggio che Jacobin magazine ha condotto negli Stati uniti presso alcuni elettori della working class: ne emerge un panorama interessante per capire in che modo evitare che si manifesti, ribaltando le categorie marxiane, una «classe contro di sé» pronta a gettarsi in pasto a reazionari e razzisti.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.