Il potere e le parole
Il linguaggio è una delle poste in palio delle lotte perché è immediatamente produttivo di relazioni sociali e rapporti di potere. Ecco perché la sua importanza è decisiva. L'editoriale del n. 14 di Jacobin Italia
Ogni conflitto sociale, ogni lotta che si ponga il problema di mettere in discussione gli assetti dati di potere, è anche una battaglia attorno alla lingua: riguarda come vengono definiti alcuni fenomeni, in che modo vengono identificati alcuni soggetti e descritti gli oggetti della posta in palio. Di questo rapporto tra linguaggio e relazioni sociali, così aderente alle nostre esistenze quotidiane da rischiare di essere dimenticato, si occupa questo numero di Jacobin Italia. «L’ingiustizia discorsiva è quel fenomeno per cui le tue parole hanno meno potere di essere ascoltate, di far accadere cose, di funzionare. Insomma, puoi fare meno cose con le parole», dice la linguista Vera Gheno in apertura, dialogando con Gaia Benzi e Francesca Coin. Subito dopo Donatella Di Cesare ci espone un terreno di conflitto forse ancora più radicale, dal momento che, sostiene, oggi i discorsi (e le storie che contengono) vengono svuotati dal codice tecnico-scientifico e dal rifugio nella finzione delle immagini. Di codici e soggetti si occupa sempre Gaia Benzi, più avanti, facendo notare che da quando i meccanismi di produzione si sono allargati al lavoro immateriale (in quella che alcuni hanno chiamato la «svolta linguistica» dell’economia) la manipolazione di segni è divenuta sempre più centrale.
Di lingua e del senso profondamente politico della nascita dei vocabolari si è occupato in tempi non sospetti Antonio Gramsci: ce ne parla Antonio Montefusco. Filo Sottile analizza i casi in cui, come è accaduto ai No Tav o alle nuove ondate transfemmiste, la guerriglia linguistica permette di accrescere la consapevolezza, riprendersi spazio, costruire pensiero, coesione e azione. Sono linguaggi, quelli che nascono ai margini e nel mezzo dei conflitti, che devono sobbarcarsi il peso di nominare cose che probabilmente nei codici dei potenti non esistono, come spiegano Francesca De Rosa e Giusi Palomba.
È evidente che conflitti del genere inneschino una reazione nella controparte. Accade con la retorica strumentale della cosiddetta «cancel culture» fenomeno inesistente, o quantomeno ingigantito, che pure appassiona molto gli opinionisti mainstream, secondo i quali ormai «non si può dire più niente». Ne ricostruisce la genealogia Adil Mauro. Un fenomeno analogo è accaduto in reazione alle sperimentazioni linguistiche che cercano di costruire un linguaggio inclusivo, suscitando scandalo e allarmi presso gli stessi che (guarda un po’) tengono le redini dei rapporti di forza, scrive Claudia Boscolo. Per non parlare dei libri di testo scolastici, presi ad esempio da Jessica Caroline Edeme per analizzare il modo in cui nel mondo della formazione si riproducono sfruttamento ed esclusione. Ma siccome ogni parola assume senso in un determinato contesto, è possibile riutilizzarne alcune per scopi diametralmente opposti a quelli per i quali erano nate, sostiene Elisa Virgili nel suo articolo. E Antonia Caruso si cimenta con il fenomeno reciproco: come parole e concetti partoriti in contesti conflittuali diventano slogan pubblicitari o fattori di washing, per dare una mano di vernice etica a pratiche disprezzabili. Marie Moïse analizza il linguaggio maschilista, veicolo di violenze e oppressioni. Fabrizio Acanfora spiega la relazione tra linguaggio e presunta normalità nel mondo della neurodiversità. Costanza Giuliani dà conto della lingua delle persone sorde, che contiene elementi inclusivi abbastanza sorprendenti e ignoti alle forme espressive considerate «ordinarie». Giuliano Santoro si occupa di come i nazisti, infilandosi nel linguaggio di tutti i giorni, arrivarono a rendere accettabile l’orrore e la prevaricazione. Nell’inserto a fumetti, invece, Assia Petricelli e Sergio Riccardi raccontano la storia sorprendente del nüshu, l’unica lingua al mondo creata e utilizzata soltanto da donne.
La sezione dedicata all’edizione statunitense di Jacobin si occupa invece delle difficoltà della sinistra socialista Usa dopo la vittoria di Joe Biden, con una selezione di articoli dal n. 44 di Jacobin Magazine. In una lunga intervista, Adam Tooze analizza il contesto economico di questa fase e spiega per quale motivo la crisi pandemica è destinata a produrre incertezze e squilibri più di quella finanziaria del 2008 dei mutui subprime. Natalie Shure ragiona sui limiti dell’esperienza di Alexandria Ocasio-Cortez e la sua squad progressista al Congresso, che hanno a che fare con la difficoltà di tenere insieme il piano della crescita soggettiva dei movimenti e della sinistra nella società e l’agenda delle istituzioni con i suoi compromessi e i suoi rapporti di forza. C’è il rischio che si abbandoni la sfera collettiva per rifugiarsi nel personale, riflette Liza Featherstone, e che per di più questo riflusso si ammanti di finalità «politiche». Dopo l’era definita della post-politica, è l’analisi di Anton Jäger, ci troviamo in quella della iper-politica: tutto rischia di finire in conflitti molecolari, divisivi e improduttivi dal punto di vista della crescita sociale.
Michael Grasso ripercorre l’epoca in cui i sindacati statunitensi provarono ad arginare la controrivoluzione reaganiana investendo in spot televisivi che oggi, sui social, sono piccoli fenomeni di culto (un po’ nostalgico). Ma la figura del socialista perdente ha nobili ascendenti: Eileen Jones ripercorre il modo in cui i fratelli Coen, nei loro film, ne hanno fatto un tema ricorrente.
In questo numero abbiamo volutamente evitato di uniformare redazionalmente gli usi delle desinenze rispettando le diverse scelte di chi scrive. Schwa, asterischi e altre soluzioni sono infatti sperimentazioni che indicano un problema più che una soluzione. Non una norma linguistica compiuta ma un posizionamento politico.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.